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9/10

Milano Odia: La Polizia Non Può Sparare regia di Umberto Lenzi

Poliziesco
recensione di Gabriele Repaci

Il bandito Giulio Sacchi (Tomás Milián) decide, insieme ai due amici Carmine (Ray Lovelock) e Vittorio (Gino Santercole), di rapire Marilù (Laura Belli) la giovane figlia del Commendator Porrino (Guido Alberti) il ricco datore di lavoro della sua fidanzata Jole Tucci (Anita Strindberg). Sulle sue tracce si mette il ligio Commissario Walter Grandi (Henry Silva) deciso a fare giustizia.

 

Milano odia: la polizia non può sparare di Umberto Lenzi può essere considerato uno dei film più rappresentativi del poliziesco all’italiana o «poliziottesco» (come ebbe a definirlo una certa critica sprezzante), che rispecchiava quella realtà estremamente complessa e movimentata tipica del nostro paese durante gli anni ’70, caratterizzata dall’inasprirsi dei conflitti sociali e da una sfiducia diffusa verso le istituzioni. Negli ambienti di sinistra questo genere è sempre stato snobbato perché considerato tendenzialmente reazionario. Tuttavia, a distanza di quarant’anni, è possibile rivedere tale filone senza pregiudizi ideologici consci dell’influenza stilistica che esso ha avuto sul cinema americano in particolare quello di Quentin Tarantino che ha più volte detto di essersi ispirato ai film italiani di genere.

La pellicola in questione ritrae un paese esasperato, vittima della violenza di criminali che non hanno più nulla di simile ai vecchi «ladri di galline» dell’Italia dei primi del Novecento e che non nutrono alcun rimorso nell’uccidere in maniera spietata anche donne e bambini. Come dice il bandito Giulio Sacchi: «c’è una sola cosa che conta: o i soldi tu ce l’hai e sei qualcuno, o non ce l’hai e sei una pezza da piede». Dunque ogni mezzo è lecito per procurarsi il denaro anche se ciò dovesse costare la vita a molti innocenti.

A tale crudeltà e mancanza di scrupoli della malavita la polizia non riesce a rispondere in maniera altrettanto pronta. Tanto che alla fine il cupo Commissario Grandi, impersonato da un sublime Henry Silva, si trova costretto a farsi giustizia da solo. In un certo senso ci troviamo dinnanzi ad un western metropolitano in cui al posto del cowboy solitario c’è ora un «commissario di ferro» e a sostituire i cavalli al galoppo sono le sgommanti pantere della polizia.

Dal punto di vista tecnico bisogna sottolineare l’aggressività e la violenza di una grammatica filmica che, attraverso un uso nervoso della macchina da presa (il famoso inseguimento «alla Umberto Lenzi» con l’ inquadratura in soggettiva sul veicolo) e del montaggio, cerca di enfatizzare il dinamismo dell’azione a scapito di un approccio in profondità nel quale rientri la delineazione a tutto tondo dei personaggi. Il tutto viene servito dalla sceneggiatura di Ernesto Gastaldi, ricca di dialoghi in dialetto milanese, e dalla splendida colonna sonora di Ennio Morricone.

Straordinaria è anche l’interpretazione di Tomás Milián (doppiato dal grande Ferruccio Amendola) nel ruolo dell’anti-eroe Giulio Sacchi. Pare che l’attore cubano sia rimasto tanto entusiasta della parte affidatagli da abusare di alcolici e stupefacenti durante il periodo delle riprese del film per entrare meglio nel personaggio.

Il film di Lenzi rimane dunque uno dei meglio riusciti noir del cinema italiano che non lascia spazio a finali rassicuranti dove il bene trionfa infine sul male ma la realtà viene mostrata in tutta la sua crudezza anche se ciò può non far piacere allo spettatore.

 

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Marco_Biasio (ha votato 9 questo film) alle 11:26 del 15 ottobre 2013 ha scritto:

Che dire di quanto non già detto? Molto bene...