A Per un pugno di western - C’era una volta Sergio Leone

Per un pugno di western - C’era una volta Sergio Leone

Nell’ormai lontano 1989, a soli 60 anni, ci lasciava uno dei più grandi autori del cinema italiano, Sergio Leone, il cui nome inizia a risuonare, forte e secco come lo sparo di una Colt, nel 1964, anno d’apparizione del suo primo film western, Per un pugno di dollari, girato con lo pseudonimo di Bob Robertson, letteralmente Roberto figlio di Roberti, omaggio al padre Vincenzo Leone, regista ai tempi del muto, noto come Roberto Roberti; non si era certo di fronte ad un esordiente, visto la lunga e sofferta carriera come aiuto regista, assistente alla regia (Quo vadis, ’51, Melvin le Roy) e autore di soggetti (Nel segno di Roma, ’58, Guido Brignone), riuscendo solo nel 1960 a dirigere Il colosso di Rodi, rutilante peplum che si differenziava da similari produzioni dell’epoca per mettere in campo una già notevole padronanza tecnica, insieme a quell’innato gusto per lo spettacolo che saranno connotazioni costanti della sua produzione, sino all’ultima realizzazione e capolavoro assoluto, C’era una volta in America, ‘84.

 

Folgorato dalla visione di Yojimbo,’61, di Akira Kurosawa, con altri sceneggiatori (tra i quali Duccio Tessari, Fernando Di Leo e Tonino Valeri) ne trasse ispirazione (noncurante dei problemi legali relativi ai diritti d’ autore) per una storia alquanto semplice: un pistolero taciturno e solitario (tale Clint Eastwood, 34enne attore per lo più televisivo, al suo esordio come protagonista assoluto), praticamente senza nome, anche se il becchino lo chiamerà Joe, giunge a San Miguel, paese al confine tra Messico e USA, dove due famiglie, i Rojo e i Baxter lottano per il controllo sul contrabbando di alcool e armi; qui darà vita a un doppio gioco al fine di mettere i clan l’uno contro l’altro, in modo che si eliminino a vicenda, ma uno dei Rojo scoprirà il piano e il nostro verrà catturato e torturato; riuscito a fuggire, attenderà che i Rojo uccidano i Baxter e gli altri componenti della banda, per poter attuare la sua vendetta, in un mitico duello finale dove riuscirà a farli fuori tutti, compreso il brutale Ramon (uno straordinario Gian Maria Volontè, “John Wells” sui manifesti dell’epoca, nell’insolito ruolo di vilain).

Pur non essendo propriamente il primo western girato in Europa, considerando le precedenti produzioni ad opera di Spagna e Germania, è però da considerare che solo Leone riuscì a mettere in pratica il non facile intento di ricreare un genere e dargli nuova linfa vitale, tanto che il termine ormai consueto, spaghetti western, mediato sui grandi giornali da alcuni critici americani, acquisterà man mano una diversa rilevanza, non certo dispregiativa, finendo con l’identificare anche produzioni made in Usa che, successive a questo film, si ispireranno al suo stile violento ed eccessivo, lontano da sentimentalismi o retoriche celebrazioni sul mito della frontiera e la sua epopea.

Niente, infatti, fanciulle estatiche o romantici tramonti, ma predominanza di una violenza parossistica, tra sadiche torture, brutali sparatorie, singolari ed affascinanti inquadrature con primi piani stretti sugli occhi, sui volti segnati dal sole, “alla ricerca del volto dell’uomo” cui si stavano accingendo altri registi, certo con altri intenti; la costruzione complessiva appare ancora oggi notevole, tutta giocata più sul togliere che sull’aggiungere, tanto che i momenti drammatici o senza parole vengono sottolineati dalla colonna sonora, opera di Ennio Morricone, innovativa per un western, raffinato amalgama di suoni e rumori, volta, in particolare, a mettere in atto una sorta di rincorsa tra immagine e suono, spesso funzionale alla dilatazione temporale cara al regista.

C’è già tutto il Leone che verrà, con la sua visione pessimistica e disillusa della vita, la sua cinica e macabra ironia, ma pochi all’epoca, seppero comprendere la forza “eversiva” di uno stile che troverà conferma nel successivo Per qualche dollaro in più, ’65, sceneggiato da Leone e Luciano Vincenzoni, con una esposizione narrativa ancora più asciutta, lineare e tesa, oltre che particolarmente attenta all’approfondimento psicologico dei tre personaggi principali; dopo i pirotecnici titoli di testa, divelti da invisibili colpi d’arma da fuoco, una didascalia ci introduce nel west più selvaggio e violento dove la vita non aveva valore, ma la morte qualche volta aveva il suo prezzo. Questo è il motivo per cui apparvero i bounty-killers, i cacciatori di taglie come il giovane detto Il Monco (Eastwood), che fa tutto con la sinistra, tranne sparare (usa la destra, protetta da uno strano tutore di cuoio), laconico e sornione, e il più anziano colonnello Mortimer (Lee Van Cleef), freddo e spietato. Assistiamo in parallelo alle loro gesta, la cattura di vari ricercati, sino ad un incontro-scontro per un comune obiettivo, un bandito schizofrenico e drogato, El Indio (Volontè) insieme alla sua banda, così da mettere le mani sull’ ingente taglia; attuano un piano: il giovane agisce da infiltrato, dall’interno, il vecchio dall’esterno, ma dopo una rapina alla banca di El Paso, vengono smascherati. Inevitabile l’ecatombe finale, con la sorpresa di un duello tra Mortimer e l’Indio, scandito dal suono di un carillon (Quando la musica finisce cerca di sparare…Cerca…), simbolo di un comune, tragico, destino che li accomuna, e il cui ricordo, vere e proprie proiezioni subliminali, turba la mente del fuorilegge; il colonnello rinuncia alla taglia, voleva solo vendicare la morte di un familiare.

Fedele al concetto della realtà dell’ingenuità, già presente, in abbozzo, nel lavoro precedente, rivolgendosi non tanto all’adulto tornato bambino, ma a quel fanciullo che siamo stati e che vorremmo ancora essere, lo stile di Leone appare orientato ad un ben definito manierismo, con una violenza tanto realistica ed esagerata da divenire gioco surreale; unendo all’atmosfera da west di frontiera la ricerca formale di certo cinema giapponese (ancora Kurosawa) e i toni da commedia di quello italiano, il regista passa bruscamente da campi lunghi a primi piani frontali, così come appaiono bruschi, e stilisticamente irrisolti, per quanto affascinanti, i flashback sui ricordi dell’ Indio, risolutivi comunque nel dare un tono da tragedia; sempre notevole la colonna sonora di Morricone, qui ulteriormente caratterizzata e non più debitrice di altre composizioni, pur se in forma di omaggio (il Deguello di Per un pugno di dollari).

Il terzo e conclusivo capitolo dell’ideale trilogia del dollaro, anche detta dell’uomo senza nome, Il buono, il brutto, il cattivo, ‘66, rappresenta la consacrazione definitiva, un raffinato compendio di ricerca formale, dagli ormai tipici manierismi e virtuosismi, anche se in tal caso l’esagitato ricorso alla violenza, pur presente, ha un tono meno parossistico e surreale, complice la precisa ed accurata ricostruzione storica, in un’estrema commistione di toni epici, commedia e riflessione, con espliciti richiami ai conflitti mondiali, mettendone in risalto i lati più grotteschi, tragici ed assurdi, puntando sui toni della farsa e della beffa, con il tentativo dichiarato di rifare La grande guerra di Mario Monicelli in chiave western. D’altronde gli sceneggiatori sono gli stessi: Age & Scarpelli, Vincenzoni, Sergio Donati.

In un’America sconvolta e devastata dalla Guerra di Secessione, si incrociano le vite di tre individui: Tuco Ramirez (Il brutto, Eli Wallach), furfante di mezza tacca, il Biondo (Il buono, Eastwood), cacciatore di taglie, e Sentenza (Il cattivo, Van Cleef), killer spietato alla ricerca di un cospicuo quantitativo d’oro sottratto ai confederati; ognuno di loro viene a sapere un ben preciso particolare riguardo il luogo in cui tale “tesoro” è stato nascosto, per cui, tra alleanze e doppi giochi vari, cambi di casacca e gesta eroiche di calcolata opportunità, si ritroveranno in un cimitero a “guadagnarsi” il bottino sfidandosi in un singolare duello.

In una cornice estremamente realista, nonostante il film, come molti altri spaghetti western sia stato girato in Spagna, esaltata dalla fotografia di Tonino Delli Colli che riesce a mitigare i colori naturalmente accessi del paesaggio giocando sui toni del marrone e del bianco sporco, risalta l’estremo individualismo e la picaresca anarchia di tre “facce di cuoio”, lungi dal prendere una qualsiasi posizione che non sia quella di salvare la pelle e il proprio tornaconto, servendosi al riguardo della guerra in atto. Tra spettacolari riprese di battaglia (Mai vista tanta gente morire così male) e ampie panoramiche sui campi di prigionia, che tanto richiamano i lager tedeschi, è messo ben in evidenza il pensiero del regista, scevro da retorica, sulla barbarie messa in atto da ogni conflitto; Eastwood conferma, evolvendolo ulteriormente, il suo personaggio dai gesti lenti e dal fare ieratico, con frasi secche espresse a mezza bocca, spesso risuonanti come lapidarie sentenze, Van Cleef ribalta il ruolo “romantico” del precedente Per qualche dollaro in più, mentre la vera sorpresa è Wallach, l’unico ad avere non solo un nome, ma anche dei trascorsi ed una psicologia ben definiti, non priva quest’ultima di una certa complessità; da ricordare la bella interpretazione, dolente ed efficace, di Carlo Giuffrè.

Le successive realizzazioni western, C’era una volta il West, ’68, e Giù la testa, ‘71, per quanto sempre estremamente affascinanti nella loro visualizzazione e caratterizzazione di tematiche e personaggi, vuoi per una certa lentezza insistita nel primo, vuoi per certe verbosità di fondo presenti nel secondo, non avranno presso il pubblico lo stesso forte impatto del trittico sopra descritto, non aggiungendo ma neanche togliendo nulla alla ormai consolidata fama del “padre del western all’italiana”, anche se a chi gli faceva spesso notare tale appellativo, il Maestro, al solito spietatamente sardonico, rispondeva: Lei lo sa quanti figli di…ci sono in giro?

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.