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8/10

Tra Cinque Minuti in Scena regia di Laura Chiossone

Drammatico
recensione di Alessandro M. Naboni

Anna e Gianna, madre e figlia a cui il tempo beffardo inverte i ruoli. Realtà documentaristica e finzione cinematografica che si mischiano indissolubilmente per raccontare una storia forte che nella riservatezza delle case riguarda più persone di quanto si possa pensare. Un film sul dolore che sa dare speranza riuscendo a raccontare una storia difficile in modo leggero e allo stesso tempo profondo. Notevole opera prima della regista Laura Chiossone.

 

A mezzanotte va

la ronda del piacere

e nell'oscurità

ognuno vuol godere.

 

Chitarra e voce, Anna e Gianna Coletti duettano ne Il tango delle capinere di Bixio-Cherubini, canzone di passioni di una notte e di professioni vecchie quanto la terra. Sono madre e figlia, o meglio lo erano perché il tempo beffardo spesso si prodiga in curiosi casi di Fitzgerald-iana memoria. Involuzioni fisiche con l’avanzare dell’età fino a una infanzia più cosciente, ma comunque al limite della locked-in syndrome. Madre-di-madre, figlia-di-figlia.

Ci sono storie già viste-lette-raccontate-e-vissute che il cinema ha saputo narrare da ogni possibile prospettiva, argomenti che sanno colpire con relativa facilità l’immaginario di chi ne parla-e-ascolta. Ce ne sono altre più difficili – nei temi ma non necessariamente nei modi – che sono terreni spesso incontaminati e più bisognosi di sensibilità nello sguardo e di attenzione nella sintassi del racconto per evitare la retorica della compassione. Laura Chiossone, regista milanese alla sua opera prima, è stata scelta da una di queste storie, fatte di esistenze borderline in quotidiana convivenza a-sincrona con la realtà. Siamo a Milano, dove l’esasperazione dei ritmi rende ancora più surreale lo stato di sospensione in cui vivono le due protagoniste.

Gianna ha cinquant’anni ed è bella, anzi bellissima. Bella di una bellezza che hanno le persone che riescono ad andare avanti nonostante le tante difficoltà che consumano energie fisiche e mentali. Una vita dedicata all’arte fin da piccola perché la madre vide per lei un futuro nel mondo dello spettacolo. Corsi di danza-canto-recitazione-portamento-musica. Poi si sa, le luci della ribalta e i red carpet sono per pochi, gli artisti sono tutti dei morti di fame (comunque immensamente meglio dei tanti morti di fama che popolano l’italico piccolo schermo).

Anna, novantenne quasi’immobile, cieca ma con occhialetti 3D per ricordare il peso della montatura che fu, sogna una casa al mare e ogni giorno rivendica la propria autonomia aldilà dell’incontrollabile e per lei inconcepibile aggravarsi delle condizioni fisiche. Nelle sue risposte c’è tutta la sagacia dei bei tempi andati, il sarcasmo di una donna forte che ha sempre lottato per se e per far crescere una figlia senza quel padre fedifrago che troppo-spesso-e-volentieri tornava in Sicilia dalla vera famiglia. Incubo delle badanti, non ha mai voluto adeguarsi alla vita.

Il film inizia con queste due donne – dettagli che trasportano nell’intimità di un legame diventato di necessaria simbiosi – e si compie nel loro rapporto umano-troppo-umano, in quei gesti carpiti da una regia che ha saputo rendersi invisibile per lasciar fluire la realtà, senza filtri che non fossero quelli di un montaggio altrettanto discreto. La rabbia per l’invecchiare di una madre in modo diverso da come ci s’immaginava, i brevi-ma-intensi momenti di spensieratezza, l’amarcord, le piccole incazzature del presente e il malinconico rancore per un passato d’imposizioni materne che col tempo si sono fatte vocazione, un amore che non trova spazi.

Umanità che si riverberano nel racconto dell’allestimento di uno spettacolo teatrale, contrappunto narrativo alla vena documentaristica: un compagnia con talento-idee-ma-pochi-soldi (in cui una meta-lettura critica potrebbe vedere la produzione del film stesso) che s’arrangia come può nel contesto economico-sociale dell'Italia d'oggi in cui la cultura sembra non essere mai tra le priorità. Sulle assi di legno del palcoscenico e nel microcosmo che si crea dietro le quinte avviene l’incontro tra vita e messinscena: la sceneggiatura dell’esordiente Gabriele Scotti riesce legare le due componenti in modo coerente, senza soluzione di continuità, creando empatia senza forzature o facile retorica del dolore e valorizzando la molteplicità dei linguaggi utilizzati. Dramedy la definirebbero gli americani, perché sa (far) sorridere nella tragedia, sdrammatizzare ed essere ironica laddove altro cinema sarebbe caduto nel dramma compiaciuto o nella lacrima facile, anni luce da quella che Tra cinque minuti in scena (ti) sa strappare con la potenza della spontaneità. Teatro come incontro e come crisi quando il reale deborda nell’isola felice della finzione, quando gli eccessi alla Stanislavskij di glorie passate (nella meravigliosa interpretazione alla Sunset Blvd. di Anna Canzi) colpiscono nel profondo, acuendo sensi di colpa o dolori lantenti. Un primo piano che da biancoenero si fa a colori per riassumere in pochi fotogrammi tutta la condizione psicologica di Gianni nei tanti anni in cui ha dovuto accudire una madre non più auto-sufficiente.

Senza eccedere in proclami marinaspadeschi sul cinema a Milano – con cui peraltro sottovoce si è d’accordo – il film della Chiossone è uno di quei fari possibili per una città che negli anni ha perso la vocazione cinematografica, dimenticandosi di poter essere ispirazione con quel romanzo popolare che ogni giorno, anche maldestramente, vive in essa e aspetta soltanto di essere raccontato. Immediato, diretto, a tratti ingenuo, ma potente e coraggioso come ogni opera prima, a suo modo, dovrebbe essere. Perché per raccontare un dramma non è indispensabile essere drammatici e per riflettere sul cinema e sulla vita non serve uno stile ostico ed ego centrato (si, il riferimento è proprio all’ultimo di Paolo Franchi). Basta un’idea forte e il coraggio di una storia che tanti vivono nel silenzio del privato, senza poterla condividere o preferendo nascondere dolore-paure-difficoltà per non mostrarsi vulnerabili a un mondo che inghiotte chi rimane indietro. Produce la Rossofilm di Marco Malfi Chindemi cui va il merito di aver creduto in un progetto di valore ma commercialmente difficile.

Una menzione a parte per la colonna sonora originale delle Into the Trees, progetto nato 2010 dall’incontro delle differenti sfere musicali di Ana Paula Avetti (musica brasiliana anni ’60, bosanova in particolare) e Michela Lettini (background inglese); il loro commento musicale atipico per il genere e lontano da cliché armonici si fonde perfettamente con le immagini donandogli ulteriore carattere. Una rivelazione, da seguire.

Tra cinque minuti in scena è necessario cinema coraggioso ancor prima che indipendente.

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alexmn 8/10

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