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R Recensione

9/10

Once regia di John Carney

Musicale
recensione di Alessandro M. Naboni

Lui è un chitarrista irlandese che ripara aspirapolvere e canta ai bordi delle strade; lei è una pianista immigrata dalla Repubblica Ceca. Dal loro incontro nasceranno canzoni e musica di grande intensità e bellezza. Un piccolo capolavoro.

Un ragazzo suona la chitarra e canta su un marciapiede. Uno sbandato cerca di rubargli i soldi che ha raccolto. Gli corre dietro, lo raggiunge ma non ha il coraggio di prendersela con lui: sono entrambi sulla stessa "barca", diverse ma simili condizioni di disagio.

Once inizia così, ci catapulta immediatamente sulla strada di una Dublino povera ma non rassegnata. Tra passanti che vivono la propria vita non curandosi dei tanti che stanno ai margini della società, borderline per condizione/necessità ma non per natura.

Giovane non-attore cantante nella finzione così come nella vita (leader della band dei The Frames) di giorno intona pezzi famosi perché la gente è quelli che vuole sentire; di notte usa la città (quasi) vuota come sala prove per le sue canzoni/emozioni.

Vera musica nel cuore, puro e spontaneo fluire non mediato da un destino o da un espediente di sceneggiatura furbo di abile e ruffiano affabulatore.

Un grido. Un cantare urlato come faticosa liberazione da un peso dello spirito, tenuto represso durante il giorno e fatto esplodere di notte quando nessuno ci può sentire e i fantasmi del passato, assieme alle angosce del presente, possono riaffiorare con la speranza però che non ritornino. Ma anche parole sottovoce, impercettibili, leggere, sussurrate ma altrettanto forti.

Musica e Cinema che si fanno strumento di auto-analisi, di psicanalisi personale. Quasi un sogno, potente tanto quanto le note/immagini, semplici ed essenziali perchè non c'è bisogno d'altro, così come per cantare bastano voce e idee, magari accompagnate da chitarra/pianoforte e per fare un film due non-attori bravissimi (Glen Hansard e Markétá Irglova), una storia e una cinepresa, fisicamente traballante ma solida nel suo essere arte.

Un duetto splendido di anime e di voci, di metà di una mela apparentemente uguale, ma una rossa e l'altra verde: combaciano perfettamente ma forse è solo un caso perchè non potranno mai essere una sola cosa, (forse) destinate a storie con le rispettive ritrovate/ritrovabili metà dello stesso colore. "Voglio essere me stesso, voglio essere libero", dice il protagonista riportandoci alla memoria il viaggio di apparente liberazione di Alex nel bel film di Sean Pean, Into the Wild; ma qui la volontà è diversa, più vera perchè non è una fuga scambiata per una viaggio alla ricerca del significato della vita.

Non c'è retorica facile, nessun melenso eccesso di zuccherosità, soltanto una storia di vita, sognante ma allo stesso tempo così reale come solo la vita può essere, nel bene e nel male. Splendida partitura per immagini, personaggi come note musicali, dove una canzone di pochi minuti rappresenta una storia intera, interminabile che si intreccia con altre a formare un'unica corrente di emozioni che ci colgono impreparati e riescono a colpire nel segno. Il regista, John Carney, viene anche lui dalla musica (ex batterista della band del protagonista) e fa un cinema di strada, semplice, quasi documentaristico (camera a mano, poche luci) consegnandoci uno spaccato efficace e non troppo disilluso di una Dublino dove la durezza della quasi indigenza non reprime sogni e aspirazioni: così basta un’ora di pianoforte durante la pausa pranzo o una chitarra tra un Hoover e un altro per mantenere viva/ispirata la propria arte. Una storia di amore non consumato perché platonicamente puro, illibato ed empatico; condivisione di intenti e di anime entrambe votate alla musica; due grandissimi talenti che si fondono per creare qualcosa di unico ed inaspettato per chi crede che siano solo musicisti di strada, sconclusionati senza arte ne parte.

Fenomeno commerciale: costato 150.000 dollari ha incassato più di 20 milioni di dollari, tutti meritati, quasi una giustizia “divina” a salvare qualcuna tra quelle pellicole meritevoli che rimangono sommerse tra un mare di grandiosi-pessimi film. La sempre attenta Sacher Distribuzione di Moretti ci ha regalato questo film in sala. Grazie.

Premio Oscar 2008 come miglior canzone a Falling Slowly. “Take this sinkin’ boat and point it home” dice il testo, ottimo invito a cercare di salvare quel che merita.

Davvero un piccolo grande cult.

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Voto degli utenti: 7,8/10 in media su 4 voti.
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alexmn 9/10

C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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diego84 (ha votato 8 questo film) alle 5:36 del 5 aprile 2010 ha scritto:

Capolavoro della semplicità direi. La recensione non potrebbe descrivere meglio questa piccola perla di inizio secolo.

L'amore raccontato in modo delicato , attraverso parole sguardi e gesti, come oramai siamo disabituati a vederlo nella finzione e perchè no anche nella realtà talvolta.

otherdaysothereyes (ha votato 8 questo film) alle 18:33 del 17 aprile 2010 ha scritto:

Film delizioso, complimenti per l'ottima recensione.