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10/10

Nebbia in agosto regia di Kai Wessel

Drammatico
recensione di Leda Mariani

Germania del Sud, inizio anni ‘40. Ernst è un ragazzino orfano di madre, molto intelligente, ma disadattato. Le case e i riformatori nei quali ha vissuto l’hanno giudicato "ineducabile”, ed è stato confinato in un’unità psichiatrica a causa della sua natura ribelle. Qui però si accorge che alcuni internati vengono uccisi sotto la supervisione del dottor Veithausen. Ernst decide quindi di opporre resistenza, aiutando gli altri pazienti, e pianificando una fuga insieme a Nandl, il suo primo amore. Ma Ernst è in realtà in grave pericolo, perché è la dirigenza stessa della clinica a decidere se i bambini debbano vivere, o morire…

Contro natura. La storia degli ospedali che uccisero i bambini

Rivivere al cinema storie che si conoscono per vere ha sempre un effetto di riverbero particolarmente potente, ed incisivo. Esattamente come questo film nella sua interezza. Che si conoscano o meno nel dettaglio i fatti legati al fenomeno sociopolitico del nazismo, o la vicenda del piccolo Jenish Ernst Lossa (1929-1944), ucciso tramite eutanasia nell’ospedale psichiatrico di Kaufbeuren, tra Monaco di Baviera e Costanza, la cui triste vicenda è raccontata nell’omonimo romanzo “Nebbia in Agosto”, di Robert Domes (2008), il risultato di questo film resta innegabile, ed importante.

Vado via da una sala satura di commozione dopo aver assistito alla recitazione assolutamente realistica e coinvolgente dell’allora dodicenne Ivo Pietzcker, alla sua seconda eccezionale apparizione cinematografica dopo la nomination come “Miglior Attore” ai Film Critics’ Awards Tedeschi per “Jack”, di Edward Berger, del 2014 - sua prima performance - e dopo essere stato citato da Variety come uno dei “10 europei da tenere d’occhio per il 2016”. E in effetti la drammatica storia del piccolo Ernst non solo è incarnata perfettamente nella recitazione impeccabile di questo incredibile esordiente, ma ad un certo punto si ha quasi la sensazione che sia lui ad emanarla, attraverso quel suo sguardo languido, dolce, e allo stesso tempo pieno di rabbia e di un’ innocente e violenta consapevolezza. Ben interpretati anche gli altri protagonisti della vicenda, tutti realmente esistiti, tranne la figura di Nandl, la ragazzina epilettica della quale Lossa si innamora nel romanzo, ma l’attenzione dello spettatore segue nel dettaglio, con un ritmo riflessivo, ma solido, i gesti pieni di pietà di questo ragazzino sano più dell’intera popolazione che lo giudicava, che venne assassinato senza scrupoli proprio per la sua lucidità.

Il film funziona e nonostante il regista provenga dal mondo della televisione tedesca, ha una patina assolutamente cinematografica. Molto interessante anche la fotografia di Hagen Bogdanski: a colori, ma dai toni talmente delicati, desaturati e spenti, da evocare l’idea del bianco e nero o di un seppiato, pur non essendolo. Un’immagine quasi sabbiosa, che c’è, ma che sembra venire da lontano. Elegantissimo anche il modo che Kai Wessel ha scelto per raccontare la profonda oscenità della fine di Lossa.

Le prime vittime dell’ ”eutanasia” nazista furono i bambini. A partire dall’agosto del 1939 le levatrici, le ostetriche e tutti coloro che lavoravano nei reparti di maternità ebbero l’obbligo di denunciare ogni disabilità riscontrata. Gli ospedali psichiatrici iniziarono a creare dei reparti speciali nei quali 5000 bambini e ragazzi trovarono la morte prima della fine della guerra. Nell’ottobre del 1939, Hitler scrisse un decreto formato da una sola frase, retrodatando il documento al 1° settembre dello stesso anno, giorno in cui aveva avuto inizio la guerra. Quel decreto diede il via all’atto denominato “T4”, che prendeva il nome dall’indirizzo di una villa situata al numero 4 di Tiergartenstraße, a Berlino. Il documento includeva i criteri di selezione in base ai quali chiunque non fosse stato in grado di contribuire al benessere della ‘comunità nazionale’, sarebbe stato ucciso con la pratica dell’eutanasia.

All’epoca furono create quattro organizzazioni con nomi di copertura per applicare queste pratiche ai pazienti. Tra di esse: la “Reichsarbeitsgemeinschaft Heil-und Pflegeanstalten” (L’Associazione per il Lavoro dell’Ospedale Psichiatrico del Reich) e la “Gemeinnützige Krankentransportgesellschaft (L’Associazione delle Ambulanze Pubbliche). I dirigenti degli ospedali psichiatrici dovevano compilare dei resoconti periodici per ciascun paziente, che venivano poi inviati a Berlino, dove altri psichiatri esperti inserivano dei simboli: il segno meno di colore blu indicava ‘vita’, il segno più di colore rosso significava ‘morte’. I pazienti venivano trasportati fino ad uno dei sei ‘ospedali della morte’ per mezzo di autobus o treni e immediatamente dopo il loro arrivo, venivano uccisi nelle camere a gas.

Si stima che oltre 70.000 persone furono assassinate con questa pratica, che gettò le basi per il successivo sterminio degli ebrei europei, sia dal punto di vista tecnico, che organizzativo. In molte parti della Germania i pazienti psichiatrici ebrei furono uccisi per primi. Dal 1941 in poi, i prigionieri dei campi di concentramento che erano incapaci di lavorare furono anch’essi uccisi in questa strutture ospedaliere.

Nell’agosto del 1941, Hitler pose fine al “T4”ma la notizia di questi omicidi era trapelata, creando proteste tra la gente. La fine di questo programma non significò però la conclusione dell’eutanasia. Da quel momento in poi, furono gli stessi medici, gli assistenti sociali e le suore, a sopprimere i pazienti direttamente nelle unità, tramite avvelenamento da barbiturici, mescolati al succo di lamponi per i bambini e, dal 1943 in poi, con cibo non nutriente. Il film si concentra in particolare sulla creazione della Dieta di fame (Hungerkost), soprannominata “Dieta E”, inventata nel romanzo e nel film dal personaggio del Dottor Walter Veithausen, interpretato da Sebastian Koch, e “brevettata” realmente nell’ospedale di Kaufbeuren sempre sulla pelle di malati psichiatrici, nonché utilizzata da quel momento in poi per uccidere nell’ombra, senza poter essere accusati. I pazienti morivano di fame o di tubercolosi a causa delle loro pessime condizioni di salute e i dottori utilizzavano i loro organi per scopi di ricerca.

In alcune strutture psichiatriche i medici eseguivano esperimenti anche sui pazienti in vita, ed oltre alle 200.000 vittime degli ospedali, almeno 100.000 altri pazienti morirono in diverse aree occupate dell’Europa e per i trattamenti che dopo la fine ufficiale del secondo conflitto mondiale, nel 1945, furono barbaramente portati avanti per almeno altri due anni, al fine di “ripulire” la società da varie tipologie di malattie, psichiatriche e non.

“Bisogna tornare a morire di più”, è la frase agghiacciante pronunciata ad un certo punto da un folle generale tedesco, che getta vergogna sull’intera società occidentale e che nel film viene posta intelligentemente davanti al crimine commesso anche dalla comunità cristiana e cattolica, che operava negli ospedali e che decise semplicemente di stare a guardare, confidando in un quantomeno opinabile intervento della provvidenza.

Come ha sottolineato più volte il produttore Ulrich Limmer, che ricevette copia del romanzo e comprò i diritti per farne un film già nel 2009, era impossibile rinunciare alla realizzazione di questa opera: <<...la storia mi scosse a tal punto che non riuscii più a togliermela dalla testa. Ogni volta che vedevo la foto di questo ragazzino, pensavo: questa storia deve essere raccontata. Lo consideravo un mio dovere verso di lui, che rappresneta così tante vittime della nostra società...>>.

E dunque per fortuna, almeno l’ombra del coraggioso Ernst Lossa, avrà un convincente strumento in più per incidere il cuore e la mente delle persone di tutto il mondo, perché si riesca a non dimenticare, e ad evitare di riproporre un agghiacciante lato dell’umanità, capace di violenze ed ingiustizie che superano qualunque perversa fantasia. Ancora una volta, come ha sottolineato Wessel, << verrà messa in primo piano l'abilità speciale dei bambini di saper affrontare, con amore, rispetto e dignità, anche le peggiori condizioni di vita possibili, contestando casuali ed opinabili criteri di valutazione della disabilità>>.

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