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R Recensione

9/10

Un Mondo Fragile regia di César Augusto Acevedo

Drammatico
recensione di Elena Rimondo

Alfonso, un uomo ormai anziano, torna a casa dopo diciassette anni per accudire il figlio gravemente malato ai polmoni. Il luogo che aveva lasciato, però, non esiste più. Ormai la casa è circondata da piantagioni di zucchero dove ogni giorno vengono appiccati incendi per facilitare il lavoro dei tagliatori, col risultato che quasi tutti gli abitanti se ne sono andati in città per sfuggire alla cenere e al fumo.

Storie pazzesche, Il segreto dei suoi occhi, Desde allá, Vulcano e Un mondo fragile: film che raccontano le storie più varie e che appartengono a generi diversi, ma caratterizzati da un comune denominatore, ovvero il Sudamerica. Sembra che negli ultimi anni la settima arte stia traendo nuova linfa vitale dall’America Latina, e non più dalla parte settentrionale del continente. È forse il modo più autentico, più audace di raccontare storie la chiave del successo (più di critica che di pubblico, a dire il vero) del cinema sudamericano da qualche tempo a questa parte, e Un mondo fragile ne è la prova. Niente effetti speciali, lunghi silenzi, ritmo lento, eppure la triste storia di Alfonso e della sua famiglia commuove come poche altre. Il film inizia in medias res, con un uomo anziano che torna nella sua casa da cui manca da molti anni. Di cosa abbia fatto tutto questo tempo sappiamo solo che ha abitato in un posto che lui definisce bellissimo, ma, trattandosi probabilmente della città, risulta difficile credergli. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare di primo acchito, Alfonso non è tornato per trascorrere gli ultimi anni della sua vita nella casa natale, bensì per assistere il figlio morente. Al capezzale del figlio Alfonso incontra per la prima volta la giovane nuora e il nipotino, oltre alla moglie, una donna rancorosa con la quale ha un rapporto a dir poco conflittuale. I dissidi tra i due vengono esasperati dalla convivenza forzata, dalla malattia del figlio e, ultimo ma non meno importante, dalle condizioni ambientali. La casa di Alfonso è sì circondata dal verde, ma non quello della foresta, bensì quello delle sterminate piantagioni di canna da zucchero nelle quali lavorano la moglie e la nuora di Alfonso. Ogni sera vengono appiccati incendi per bruciare le lunghe foglie taglienti delle piante, cosicché la famiglia è costretta a tenere perennemente gli scuri chiusi e a vivere al buio. Al tramonto una pioggia di cenere inizia a cadere su ogni cosa, piante e fiori compresi, costringendo gli occupanti della casa a lavare le foglie per permettere loro di fare la fotosintesi e non morire. Allo stesso tempo, però, la piantagione è anche l’unica fonte di reddito della famiglia. Vi lavorano le due donne – la nuora e la suocera insieme – e in passato vi lavorava anche il figlio, ora costretto a letto dalla malattia ai polmoni. Se da un lato la piantagione dà, dall’altro toglie, e con gli interessi. Che le sconfinate piantagioni di canna da zucchero siano un affare per pochi e la condanna di molti se ne rendono ben conto tutti i membri della famiglia, che infatti decidono di partire. Non tutti, però: non Alfonso, colui che tanto aveva amato quella fattoria, bensì sua moglie, che testardamente decide di non mollare, rassegnandosi ad una vita solitaria in una casa ormai assediata dalle fiamme. Ciò che può sembrare inspiegabile o persino paradossale in un primo momento trova una spiegazione nel forte legame affettivo tra Alfonso e la sua casa avita così com’era un tempo, quando tutt’intorno c’erano boschi e gli uccellini non avevano paura dell’uomo. Il peso dei ricordi e la nostalgia per quello che è andato perduto sono così insopportabili che ad Alfonso non resta che andarsene per la seconda volta. Per non tornare mai più. Un mondo fragile, il cui titolo originale, La tierra y la sombra (La terra e l’ombra), rimanda alle dense nubi di fumo che ogni giorno avvolgono l’umile casa di Alfonso, riesce a rendere in immagini quella che gli scienziati hanno battezzato solastalgia, ovvero il disturbo mentale causato dal vedere il proprio habitat deteriorato dall’inquinamento e dai cambiamenti climatici. Su ogni scena, sia essa ambientata all’interno, nelle stanze buie della casa, o all’aperto, dove la canna da zucchero preclude allo sguardo l’orizzonte, aleggia un senso di oppressione quasi claustrofobica. Tanto i personaggi quanto gli spettatori sono imprigionati tra le alte muraglie verdi che incombono minacciose sulla casa, quasi a volerla fagocitare. Nella scena iniziale, nella quale Alfonso si ripara tra le piante per sfuggire al polverone sollevato da un camion di proporzioni mastodontiche, è contenuto – come ha detto il regista – il senso del film. Il verde nel quale è immersa la casa avita di Alfonso non è natura, ma soltanto un’altra forma di sfruttamento escogitata dall’avidità umana, la quale travolge tutto ciò che incontra sulla propria strada.

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