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A Federico Fellini

Federico Fellini

Le cose più vere sono quelle che ho inventato

(F.Fellini)

Federico Fellini è probabilmente il regista italiano più apprezzato all’estero per la sua capacità di intendere il cinema come una meravigliosa opera d’arte. Film come La Dolce vita, 8½ e La strada sono universalmente conosciuti e fanno parte a tutti gli effetti del patrimonio cinematografico e culturale universale; termini come “amarcord” “vitelloni” e “paparazzo” sono entrati nel linguaggio comune a testimoniare la grandissima popolarità del regista riminese così come scene come quella del bagno nella fontana di Trevi della stupenda Anita Ekberg ne La dolce vita sono tra le più famose in tutto il mondo, mentre alcune caratteristiche presenti in gran parte dei suoi film come il vento in sottofondo e la nebbia a rendere sottile il confine tra sogno e rappresentazione sono un marchio di fabbrica che lo rende unico.

Fellini si avvicina al cinema nell’immediato dopoguerra collaborando alla sceneggiatura di due capolavori del cinema neorealista italiano come Roma città aperta (1945) e Paisà (1946), entrambi di Roberto Rossellini. L’esordio dietro la macchina da presa avviene con Luci del varietà (1951), ma il debutto assoluto è da considerarsi Lo sceicco Bianco (1952) con soggetto scritto in collaborazione con Michelangelo Antonioni, in cui sperimenta per la prima volta un modo di fare cinema onirico e visionario. Fellini si fa però conoscere al grande pubblico con i lungometraggi neorealisti La strada (1954) e Le notti di Cabiria (1957) film nei quali il ruolo da protagonista è interpretato da una grandissima Giulietta Masina che porta sullo schermo due personaggi di incredibile profondità che hanno la capacità di colpire in modo indelebile la sensibilità dello spettatore, grazie anche alla mimica e all’espressione clownesca della futura moglie di Fellini, che soprattutto in La strada ricorda nel modo di recitare le attrici del film muto. Cabiria e Gelsomina sembrano uscite da un fumetto o da un cartone animato per bambini e sono assolutamente estranee al contesto in cui si trovano che inevitabilmente, finisce per divorarle; mentre però il sorriso di una Cabiria non più sola dopo il suo dramma umano lascia un minimo di speranza per un futuro migliore, le lacrime di coccodrillo del burbero Zampanò, che riesce ad apprezzare Gelsomina solo nel momento in cui non c’è più, sono l’emblema della più profonda disperazione. Anche Il bidone (1955) può essere inserito tra i film neorealisti di Fellini, pur mostrando alcune tematiche che saranno centrali anche negli altri film: l’incontro di Augusto con la figlia e la disordinata scena della festa di Capodanno rimandano a La dolce vita (1960) mentre il gruppo di truffatori alle prese con una serie di vicissitudini era già stato trattato sotto certi aspetti nel più famoso I vitelloni (1953).

Fellini è un attentissimo osservatore della realtà che lo circonda e mostra una particolare abilità nel descrivere una serie di sfumature degli italiani di varie epoche. Il Marcello de La dolce vita (film di più di tre ore, girato nel 1960, un’anomalia per l’epoca) è un eterno incompiuto, che si accontenta di svolgere un lavoro squallido nell’ambiente della Roma bene nel periodo del boom economico, nell’attesa di finire un libro che dovrebbe dare la svolta alla sua carriera senza impegnarsi veramente per terminarlo. Marcello è un personaggio pigro, che si è reso insensibile a tutto ciò che lo circonda e nemmeno la drammatica scomparsa dell’amico Steiner, che rappresenta la personificazione di ciò che in principio egli avrebbe voluto essere, riesce a dargli la scossa per uscire dalla sua apatia e dalle ipocrisie di un mondo del quale oramai fa totalmente parte. Anche i cinque protagonisti de I Vitelloni vivono di espedienti in una Rimini che sta loro stretta ma che non riescono ad abbandonare, senza riuscire a fare una scelta che gli permetta di crescere veramente. Altri due personaggi funestati da dubbi e da mille contraddizioni sono Picasso e Augusto ne Il bidone: il primo non sembra in grado di scegliere tra l’affetto per la moglie e la figlia e il voler fare soldi facili con l’inganno, mentre Augusto appare stufo della sua vita di truffatore di bassa leva, ma allo stesso tempo, pur affrontando una serie di umiliazioni, non riesce ad essere qualcos’altro, non concependo un diverso modo di vivere; l’ultimo tentativo di truffa e l’abbandono da parte degli amici in mezzo alla scarpata, solo e ferito, saranno l’apoteosi della sua autodistruzione.

Sempre a livello antropologico l’incertezza e i dubbi sul futuro dell’uomo che si trova “nel mezzo del cammin di nostra vita” sono poi espressi nell’innovativo e paradossale , (1963) film autobiografico su un’idea di film che non c’è più e che diventerà stesso, con il regista Guido Anselmi, alterego di Fellini, travolto da una crisi personale e professionale e in balia di persone che vogliono qualcosa dal suo talento (“e poi se la gente sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare” per dirla alla De Andrè).

Con il maestro riminese torna all’onirismo in un film in cui realtà, sogno ed immaginazione si fondono in un tutt’uno; l’ intreccio è molto più spezzettato rispetto ai primi film neorealisti, lo spettatore è interessato dalle immagini più per le emozioni che suscitano che per i contenuti espressi, che sono solo una secondaria conseguenza dell’interpretazione di ognuno. Fellini ha la capacità di colpire lo spettatore con scene spezzettate di rara intensità in cui è spesso complicato trovare un nesso comune dal punto di vista logico. non si può quindi far altro che mettere da parte l’ordine e il raziocinio ed apprezzarle per quello che sono, ovvero uno stupendo esercizio artistico. Emblematica da questo punto di vista è l’opera E la nave va (1983) in cui, specie nella prima parte, il lirismo di ciò che viene mostrato va oltre la storia raccontata, in una perfetta identificazione del cinema come straordinaria opera d’arte. Il fatto che sia tutto finto, come ci mostra il regista alla fine, non ha assolutamente nessuna importanza, come dirà appunto il cineasta romagnolo nella sua famosa frase “le cose più vere sono quelle che ho inventato”.

Sempre da un punto di vista artistico meritano un discorso a parte i due lungometraggi storici del regista riminese, Fellini Satyricon (1969) e Il Casanova di Fellini (1976), probabilmente le sue due produzioni cinematografiche più di nicchia. Entrambi fanno riferimento a un’opera letteraria del passato (il Satyricon di Petronio e l’autobiografia di Federico Casanova) e sono molto teatrali sia per lo stile recitativo che per l’espressività degli attori che vengono truccati in modo talmente eccessivo da essere mostruosi, soprattutto nelle scene in cui vengono descritte le avventure sessuali di Casanova o nei pantagruelici e viziosi festini dell’epoca romana. Il Fellini Satyricon non ha un filo narrativo organico ma segue il flusso vitale di Ascilto ed Encolpio in un’opera in cui vengono descritti rapimenti e sciagure che testimoniano il pessimismo di Fellini per quel che riguarda il futuro del mondo in cui vive, in un continuo parallelismo tra la decadenza della Roma di Nerone e la borghesia arricchita attuale; il personaggio di Trimalcione potrebbe essere infatti la perfetta trasposizione in epoca romana di un volgare industriale del boom economico. Le scelte registiche di Fellini in questo film rimandano al Pasolini de Il vangelo secondo Matteo (1964) e Medea (1969) soprattutto nel primo piano dei personaggi mentre gli ampi spazi che narrano la morte di Ascilto e l’incontro di Encolpio con il furbo Eumolpo ricordano le battaglie finali in spazi ampissimi dei western di Ford o Leone.

Il Casanova di Fellini è invece centrato sull’individualità del protagonista; il film è girato in una Venezia dai toni cupi con uno spazio claustrofobico che rappresenta l’incompiutezza del personaggio Casanova, imprigionato e allo stesso tempo legatissimo alle sue doti di grande amatore che gli impediranno di affermarsi per le sue capacità intellettuali e lo manterranno schiavo della sua immagine; il rapporto con le diversi amanti viene visto come unico modo per affermare il proprio ego e per provare a entrare in un mondo dalla quale è destinato a rimanere escluso. Sono proprio le scene dei rapporti sessuali del protagonista le più significative in cui l’incredibile mostruosità dei personaggi, i colori e la musica hanno la capacità di colpire notevolmente l’inconscio dello spettatore. Rispetto agli altri film della seconda epoca Il Casanova ha una struttura quasi cronologica, mantenendo fede all’autobiografia del personaggio settecentesco.

Fellini va invece oltre l’intreccio in altre pellicole come Roma (1972) , basato su diverse parti non legate tra loro che costituiscono il visionario ritratto della capitale da parte di Fellini e il successivo Amarcord (1973) che rappresenta un ritorno alle origini, nella Rimini degli anni ’30, in cui la storia di Titta e della sua famiglia si fonde con i sogni del giovane protagonista in un efficacissimo miscuglio che può essere rivisto come l’autentico ricordo di Fellini. Amarcord è probabilmente il film più divertente del cineasta romagnolo, con scene grottesche di grandissima comicità, come l’urlo disperato dello zio matto interpretato da Ciccio Ingrassia o l’incontro dell’avvenente Gradisca con il principe Umberto.

Merita un capitolo a parte Prova d’orchestra (1979), un “filmetto” (così definito dallo stesso Fellini) anomalo nella sua produzione sia per la sua brevità che per la linearità della vicenda. L’opera può essere facilmente interpretata come una metafora musicale del sessantotto ma al centro vi sono soprattutto la voglia di protagonismo dei diversi strumenti che vedono esclusivamente la bellezza e l’importanza del loro suono a discapito della coralità che fa grande un’orchestra; il film è rimando in chiave musicale a Sei personaggi in cerca d’autore e il disordine con cui essi organizzano la rivolta e il mutare delle posizioni tra di loro fa comprendere come non siano animati da una reale ribellione ma da un disperato bisogno di espressione del proprio ego. Nella prima parte del lungometraggio il cineasta romagnolo utilizza uno stile finto documentaristico che sarà presente in altri due suoi film molto malinconici della seconda parte della sua carriera, ovvero I clowns (1970) e Intervista (1987); in queste due opere il regista riminese si toglie la maschera dei suoi personaggi ed interviene direttamente nella proiezione raccontando vari episodi autobiografici. I clowns in particolare è girato come se fosse una descrizione sulla fine del circo tradizionale in cui Fellini va a intervistare i più grandi interpreti dell’epoca effettuando un parallelismo con la propria vita, partendo dal suo amore per il circo. La passione dei grandi clown per il loro lavoro è molto simile a quella del regista riminese per il cinema e nell’esplosione di smisurati stati d’animo nel funerale finale ha il predominio la malinconia per quella che sembra una vera e propria fine di un’epoca e la presenza di Anita Ekberg invecchiata e sfiorita rispetto a La dolce vita contribuisce a creare un senso di tristezza. Pur non essendo cronologicamente l’ultimo suo film I clowns sembra quasi il suo passo d’addio più che dal cinema dalla vita.. e visto che è stato fatto nel 1970, ben ventitre anni prima della sua morte, si può benissimo dire che si tratta di un passo d’addio troppo precoce.

Tratto comune di molti di film di Fellini è la personale descrizione di un’ Italia in continua decadenza culturale in un ipotetica rappresentazione che parte da Marcello sull’elicottero de La Dolce vita e finisce con la discoteca a cielo aperto con la canzone di Michael Jackson suonata a tutto volume nel finale di La Voce della luna (1990).. c’è l’Italia nei fumi, nella confusione e nelle perenni insegne pubblicitarie che circondano la stazione e gli studi televisivi di Roma all’inizio di Ginger e Fred (1985), efficacissima descrizione del berlusconismo agli albori di Berlusconi; c’è l’Italia nella cortese ipocrisia del marito adultero in Giulietta degli spiriti (1965), nel traffico caotico all’inizio di Roma o nell’approssimativo tentativo di sovvertire le gerarchie in Prova d’orchestra. Ci siamo tutti noi, nella spasmodica ricerca di apparenza e omologazione di un popolo che non si rende conto dell’assurdità dei propri paradossi. Negli studi televisivi di Ginger e Fred potrebbero lavorare gli squallidi personaggi de La dolce vita e di e tra gli spettatori potrebbero esserci tutti I vitelloni. Sono proprio i protagonisti dei suoi film a rappresentare l’estraneità che Fellini prova nei confronti di una società nella quale non si riconosce. Il regista riminese soffrirà infatti di depressione gli ultimi anni di vita e faticherà a trovare produttori, venendo dimenticato da un mondo al quale aveva dato tantissimo; questa sofferenza viene ampiamente descritta negli ultimi lungometraggi e il Fred di Ginger e Fred o Salvini e Gonnella, paranoici e schizofrenici interpretati da Roberto Benigni e Paolo Villaggio ne La voce della luna , possono essere visti in un certo senso come proiezioni dei suoi stati d’animo.

Sono i personaggi femminili a riuscire a mantenere un maggiore equilibrio nel marasma sociale descritto da Fellini, in particolare ne Il bidone dove sono le donne, con la loro semplicità a mostrarsi più forti, caparbie e felici rispetto ai personaggi maschili ed è particolarmente significativa e commuovente il candore della ragazza paralizzata in una delle ultime scene del film.. anche la Ginger di Ginger e Fred mantiene la capacità di affrontare l’assurdità della situazione con la giusta distanza e serenità così come la Giulietta di Giulietta degli spiriti che dopo diversi incontri riuscirà a liberarsi dai fantasmi che la tormentano, superando simbolicamente i veti imposti dall’imponente figura materna, preoccupata solo dell’apparenza e ad essere finalmente sé stessa nella suo simbolico abbandono della sua casa. Giulietta degli spiriti e La città delle donne (1980) sono senza dubbio i due film più psicanalitici del regista romagnolo con la proposizione di una serie di simbolismi che rimandano a Freud e Jung e con la presenza di numerose figure inconsce inquietanti proposte magnificamente in chiave artistica e sognante. Tratto comune dei due film, assolutamente diversi tra loro per quel che riguarda lo svolgimento, è la descrizione di donne in balia della figura maschile che inevitabilmente si erge a protagonista della loro vita; questo avviene sia per Giulietta che ha trovato nel rapporto con il marito “amante, confidente, amico” l’unica via di fuga per sfuggire dalla superficialità della madre e delle sorelle ma anche per le protagoniste de La città delle donne che, seppur non consapevolmente, si dimostrano sempre dipendenti dagli uomini, mostrati sia come fonte di adulazione che come ossessionante capro espiatorio; le critiche dei movimenti femministi ai film di Fellini possono essere giustificate proprio dal fatto che nessuna delle figure mostrate, compresa la vicina di casa Susy in Giulietta degli spiriti e le partecipanti al congresso all’inizio de La città delle donne, mostrano una donna realmente emancipata; sotto certi aspetti, però, anche i personaggi maschili sono schiavi dell’altro sesso come avviene per Giorgio in Giulietta degli spiriti che riesce a trovare una seconda giovinezza solo avendo una relazione clandestina con una ragazza molto più giovane di lui o per Katzone in La città delle donne che trova un senso nella sua vita solo nell’adulazione dell’altro sesso. In questo film resta poco definibile la figura del protagonista, Marcello Snaporaz che si trova suo malgrado al centro di una sorta di Alice nel paese delle meraviglie del mondo femminile. Così come la protagonista della favola di Carrol non avrà un sostanziale cambiamento dopo il simbolico viaggio affrontato, anche Snaporaz manterrà immutate le proprie convinzioni sulle donne.

Non di rado Fellini ricorre al grottesco per mostrare la società a lui contemporanea, come nella scena della sfilata dei nuovi abiti da prete in Roma, pungente critica a una Chiesa molto più attenta all’immagine che ai contenuti o nell’episodio di fanatismo collettivo del popolo romano intorno ai due bambini che sostengono di aver visto la Madonna ne La dolce vita. Sono però soprattutto la nobiltà decaduta o la ricca borghesia arricchita a venire più volte ridicolizzate in numerose scene dei suoi film e risulta evidente come queste classi sociali rappresentino la massima espressione di decadenza per il regista romagnolo; sono emblematiche la festa di pessimo gusto all’interno de La dolce vita, il ridicolo personaggio del Principe Umberto in Amarcord, l’assurda figura materna in Giulietta degli spiriti o ancora nei film ambientati nel passato il funerale tremendamente kitsch di Trimalcione in Fellini Satirycon o la bambinesca eccitazione voyeuristica ne Il Casanova di Fellini. la metaforica “morte” della nobiltà è nel finale di E la nave va in cui un’inconsistente classe benestante dell’epoca viene facilmente sottomessa dal più forte e drammatico potere della guerra, andando a celebrare il funerale del proprio sfarzo agli albori della prima guerra mondiale.

Federico Fellini è morto il 31 ottobre 1993 a causa di un ictus, seguito dopo pochi mesi dalla moglie Giulietta Masina protagonista di alcune pellicole indimenticabili del maestro riminese come La strada, Le notti di Cabiria, Giulietta degli spiriti e Ginger e Fred quest’ultimo in coppia con Marcello Mastroianni che invece è stato protagonista anche nei tre capolavori La dolce vita, e La città delle donne. Hanno inoltre recitato nei film del regista romagnolo attori del calibro di Alberto Sordi (I vitelloni), Donald Sutherland (Il Casanova di Fellini), Anthony Quinn (La strada), Anita Ekberg (La dolce vita, I clowns), Claudia Cardinale (). Fellini ha inoltre manifestato la sua abilità nel scegliere attori particolarmente espressivi per caratterizzare ulteriormente i suoi film, soprattutto quelli più onirici e visionari come il Fellini Satirycon, La città delle donne, Il Casanova di Fellini, E la nave va. Tra le varie collaborazioni di Fellini meritano una citazione particolare quelle con gli sceneggiatori Tonino Guerra e Tulio Pinelli e con il compositore Nino Rota.

Fellini ha vinto per ben quattro volte l’Oscar come miglior film straniero: nel 1956 con La strada,nel 1957 con Le notti di Cabiria, nel 1963 con e nel 1974 con Amarcord. Nel 1993 gli è stato conferito il premio Oscar alla carriera. Egli ha inoltre ricevuto la Palma d'oro al Festival di Cannes nel 1960 per La dolce vita e il Leone d'oro alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1985. Ha inoltre vinto il David di Donatello per la miglior regia con Le notti di Cabiria, La dolce vita e Amarcord e il Nastro d’argento alla miglior regia con I vitelloni, La strada, le notti di Cabiria, , Amarcord, La città delle donne, E la nave va.