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8/10

La Battaglia Dei Sessi regia di Valerie Faris e Jonathan Dayton

Biografico
recensione di Valeria Verbaro

Lo storico incontro tra Billie Jean King, numero uno del tennis femminile americano negli anni Settanta, e l'ex campione Bobby Riggs dà vita a un film che parla di lotta per l'uguaglianza e coraggio. Un gigantesco e mediatico scontro fra i sessi, destinato a rimanere nella memoria di molti.

La vera Battle of the Sexes, così rinominata dai media statunitensi, ebbe luogo il 20 settembre 1973, oltre quarant'anni fa, ma il suo cuore pulsante, etico e narrativo, racconta una realtà ancora tremendamente attuale. Sulla scia del neo-femminismo riscoperto dagli Stati Uniti a partire dai recenti dissensi politici e dalle potenti "Women's March", infatti, il film di Faris e Dayton, pur essendo la trasposizione di un evento passato, diventa quasi un istant movie e si trova a ricoprire il ruolo di Manifesto delle rivendicazioni di tutte le donne che ancora oggi lottano per l'uguaglianza sostanziale, tanto nell'ambito lavorativo quanto nella banale quotidianità.

È in questo contesto, dunque, che si staglia al di sopra di tutto il resto la figura di Billie Jean King, interpretata da una impeccabile e intensa Emma Stone, alla sua prima apparizione dopo l'acclamato Oscar. La King, protagonista assoluta, in grado di oscurare anche l'appariscente sfidante Bobby Riggs - un ottimo Steve Carell - è ritratta contemporaneamente come donna e come atleta. La storia ruota intorno agli avvenimenti all'apice della sua carriera, ma mette soprattutto in luce la componente personale e identitaria, altrettanto rilevante, considerato che la tennista è tutt'ora un pilastro dell'attivismo della comunità LGBT. Se da un lato, quindi, l'effettiva battaglia sul campo è relegata , come prevedibile, agli ultimi minuti del film, lasciando maggior spazio allo sviluppo psicologico dei personaggi in gioco, dall'altro uno scontro fra i sessi molto più ampio, sociale e culturale, avviene chiaramente dalla prima all'ultima scena, in ogni inquadratura, in ogni primo piano, in ogni dialogo.

In un clima di costante e talvolta aperto conflitto identitario e ideologico, ciò che inspiegabilmente manca, tuttavia, è il pathos. Nel tentativo, forse, di non calcare eccessivamente una figura già storicamente potente - per lo sport, per le donne, per i diritti civili - come Billie Jean King, i due registi tendono a mantenere un tono neutrale, talvolta persino troppo piatto, smorzato solo a tratti da esplosioni musicali; di conseguenza il coinvolgimento emotivo del pubblico si riduce drasticamente. Non sono sufficienti, a questo proposito, né le brillanti prove attoriali né lo stile di regia ricco di dettagli e di colori, in piena atmosfera da anni Settanta. Il fulcro del film è il suo messaggio sociale; ad esso è subordinata la sua stessa forma nonché il contatto diretto e affettivo con lo spettatore. La commozione estetica è, perciò, sacrificata, per lo più soffocata dal tentativo - assolutamente riuscito ma monotonale - di strutturare un'argomentazione lineare, razionale e vincente del femminismo di ieri e di oggi.

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