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8/10

50 e 50 regia di Jonathan Levine

Commedia
recensione di Stefano Oddi

Adam Lerner, in visita dal medico per un sospetto mal di schiena, scopre di avere una rara forma di cancro alla spina dorsale. Inizia la chemioterapia e le sedute psichiatriche, la sua vita cambia. E con essa, quella delle persone che gli sono vicine. Sua madre diventa una presenza assillante, il suo migliore amico pare sfruttare la sua malattia per guadagnare sesso occasionale, la sua ragazza, pittrice, si chiude a riccio nella sua vita professionale.

Tre malati di cancro siedono a semicerchio in una luminosa sala d'attesa: due anziani sorridenti e un ragazzo emaciato. I primi due offrono al giovane un biscottino alla marijuana. Lui, titubante, risponde che non ne ha mai fatto uso. Loro replicano. E lui cede inevitabilmente alla loro insistenza. Ne assaggia uno. Poi un altro. Subito dopo, lo vediamo camminare in ralenti con gli occhi sbarrati. E il sorriso stampato sul volto bianchiccio. La sua visuale è sfocata, sbiadita. Ma senza dubbio nuova, diversa.

Esattamente come quella che 50 e 50 adotta per parlare del più grande flagello della civiltà contemporanea. Passando attraverso l'esperienza reale dello sceneggiatore Will Reiser, che ha combattuto la sua personale lotta contro il cancro, Jonathan Levine mette in scena un film coraggioso e innovativo che stigmatizza il mal du siecle -che tante, forse troppe, volte la settima arte si è proposta di raccontare, fino a dar vita al sottogenere del cancer movie inaugurato dalla Bette Davis di Dark Victory (1940)- attraverso un gioioso carico di toccante ironia. Tutta la pellicola è percorsa da un brio malinconico, da una riflessione leggera e al contempo sofferta sul delicato tema della malattia terminale. Risate e spensieratezza si alternano, senza stonare, con laceranti ed esplosive parentesi di dolore sopito e represso.

Attraversando il drastico rivolgimento esistenziale di un malato e delle persone che lo circondano, 50 e 50 marcia sul filo di un rasoio, senza cadere -quasi mai- nel facile abisso di banalità circostante e anzi dimostrandosi ben più complesso di quanto apparentemente sembri suggerire. Il tema centrale del tumore, infatti, arriva spesso a fungere da presupposto per un'analisi più profonda dell'esistenza. Lo stesso titolo non è che una metafora della scelta, della necessità di schierarsi e orientarsi di fronte al caos sterminato di eventi e contingenze di cui la vita umana è un ribollente calderone. Così, anche di fronte alla tragedia, c'è prima di tutto bisogno di prender partito. Di scegliere la propria pista ad un bivio. O una via o l'altra.

O accartocciarsi nel proprio egoismo, come decide la ragazza di Adam, o sacrificarsi per amore. E in questo caso, scegliere di nuovo. O neutralizzarsi completamente per l'altro fino a trasformarsi in un'ossessione (quello che capita alla madre del protagonista) o farlo in silenzio, magari simulando un freddo distacco (la scelta di Kyle).

E proprio Adam, esile figurino da sempre omologato, bravo ragazzo che “non fuma, non beve e fa la raccolta differenziata”, che non ha mai detto “ti amo”, non ha mai preso la patente e non ha mai deciso di schierarsi, finalmente sceglie di vivere e lottare.

Oltre alla brillante sceneggiatura di Reiser, a fungere da linfa vitale per questo gioiello indipendente è il (più o meno) giovane cast. Tutti bravissimi: dal dimesso Gordon-Levitt che, con la sua faccia da bravo ragazzo, sembra accumulare tutti i velenosi miasmi del tumore che lo lacera dall'interno, prima di esplodere nella scena di penetrante potenza in cui si mette alla guida, al simpatico Seth Rogen, tozzo e ludico amico del cuore che nasconde sotto l'aria da buffone una recondita sensibilità, passando per la timida dottoranda di Anna Kendrick e l'apprensiva mamma di Anjelica Huston.

Questo film nuovo e frizzante è, in fin dei conti, una ventata d'aria fresca -anzi freschissima- nel panorama asfissiante e ripetitivo della commedia americana contemporanea, come nel già citato sottobosco del cancer movie. E' un film giovane di giovani, una prova di originalità e intelligenza che recupera, a colpi di citazioni cinefile, la freschezza del vero cinema indipendente e, nello schema di confronti che sicuramente sorgerà, si accosta più alla bellezza lirica, ironica e introspettiva del Restless di Gus Van Sant che non alla deludente banalità di un Amore e altri rimedi, due pellicole che hanno recentemente tentato -con fini diversi- di trattare in modo nuovo il tema della malattia terminale.

Compito che 50 e 50 adempie senza problemi. E a pieni voti.

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Voto degli utenti: 7,4/10 in media su 5 voti.

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