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6/10

Flight regia di Robert Zemeckis

Thriller
recensione di Fulvia Massimi

Dopo una notte di bagordi tra alcol, sesso e droga, il pilota Whip Whitaker (Denzel Washington) si mette alla guida del Southjet 227 per Atlanta. Complicazioni meccaniche e turbolenze conducono l’aereo allo schianto, ma Whitaker riesce a portare miracolosamente in salvo quasi tutti i passeggeri. La sua condotta, però, potrebbe costargli il carcere a vita.

Non è la prima volta che Denzel Washington si ritrova investito dall’infausta responsabilità di salvare centinaia di vite umane. Era già successo nel 2009 con Pelham 123 – Ostaggi in metropolitana, e nel 2010 con Unstoppable – Fuori Controllo, entrambi sotto la direzione del compianto Tony Scott, che di Washington aveva fatto il proprio attore feticcio al pari del fratello Ridley con Russell Crowe.

Ma il ruolo che Robert Zemeckis assegna a Washington in Flight - disaster-movie con inversione (a testa in giù) verso il (melo)dramma etilista e processuale – è decisamente diverso. Laddove in entrambi i film di Scott all’attore due volte premio Oscar toccava la parte del quieto impiegato pubblico, costretto da minacce terroristiche (Pelham) o dall’altrui negligenza (Unstoppable) ad impedire il deragliamento fatale di una metropolitana prima, e di un treno merci poi, nell’opera ultima di Zemeckis l’eticità del personaggio è messa seriamente in discussione.

Venticinque minuti da brivido aprono un film che ambisce a diventare (l’ennesimo) trattato teologico-morale sulle conseguenze nefaste dell’alcolismo – tanto sull’individuo che sulla collettività – e sull’atavico bisticcio tra i seguaci del fatalismo religioso e i sostenitori del ben più laico e blando concetto di “destino”. Peccato che le buone intenzioni non siano adeguatamente bilanciate, né tanto meno confermate dal risultato. Zemeckis, caro alle generazioni cresciute tra gli anni ’80 e ’90 a pane e Ritorno al Futuro (ma come dimenticare Chi ha incastrato Roger Rabbit e  Forrest Gump?), sembra infatti essersi progressivamente e drasticamente allontanato dalla “retta via” – con una discutibile trilogia di progetti in motion-capture - senza  farvi mai più ritorno.

La tensione magistralmente orchestrata nel terrificante (all’inglese) incipit del film si disperde al momento dell’impatto, e lo script di John Gatins – inspiegabilmente candidato all’Oscar per la miglior sceneggiatura originale – precipita al suolo con essa. Ad eccezione dei brani dei Rolling Stones ascoltati in cuffia dall’esilarante pusher John Goodman (in perenne stato di grazia), la pellicola di Zemeckis non ha ritmo, e la sua è una discesa lenta ma letale nella noia e nella banalità (perfino dell’incidente si conoscono già tutte le cause!). Del tipico prodotto hollywoodiano autoreferenziale e moralizzante Flight ha tutti i difetti ma quasi nessun pregio, e d’altronde, per uno che si è fatto le ossa sceneggiando film sportivi (Hard BallCoach CarterDreamer – La strada per la vittoria) – dunque buonisti per onor di genere  - non dev’essere poi questa gran novità.

Il dramma del disastro aereo sventato per miracolo (divino? umano?) – poco originale fin dalle premesse – scivola inesorabilmente nel cliché, o meglio, nell’accumulo indifferenziato di stereotipi narrativi, e Denzel Washington, che pure fa la propria parte in modo encomiabile (portandosi a casa la sesta nomination all’Oscar), lo abbraccia pienamente.

Il fantasma edipico del padre, pilota senza macchia e senza paura, perseguita Whitaker nella casa di campagna dove vorrebbe rifugiarsi e magari disintossicarsi, perché no, in compagnia di una splendida rossa ex-eroinomane e massaggiatrice (l’inglese Kelly Reilly, credibile nei panni di un’americana del Sud quanto Washington in quelli di un Inuit). Il nobile proposito di chiudere con l’alcol dura, direbbero i francesi, l’espace du matin, nonostante l’incubo legale penda sulla testa indifferente di Whitaker e uno zelante avvocato (Don Chaedle) faccia di tutto per ricordarglielo; l’ex-moglie non lo vuole vedere nemmeno dipinto, e il figlio post-adolescente vorrebbe gonfiarlo di botte come una zampogna.

In tutto ciò, naturalmente, ecco intervenire una sana spolverata di religiosità made in South (Zemeckis torna a girare in Georgia a quasi vent’anni dal suo capolavoro, Forrest Gump), tanto per allietare un quadro di degradazione rurale altrimenti incompleto. Da un lato, il giovane co-pilota bigotto invoca il principio dell’ “act of God”, citando l’operato imperscrutabile del Signore, o piuttosto del suo sventurato figliolo (“praise Jesus!”), a giustificazione dei mali del mondo. Dall’altro, il malato terminale di cancro (altrettanto giovane) si appella più cinicamente all’umana incapacità di controllare ciò che il buon Dio ha messo in serbo per noi («Once you realize all the random events in your life are God, you live a much easier life»).

A ben guardare, tuttavia, che Whip Whitaker sia credente o meno ha ben poca importanza, giacché la sola fede concessagli è quella nei santissimi Stati Uniti d’America. Il finale – con gradita apparizione di Melissa Leo – è rivelatore: l’onestà trionfa sulla menzogna, offrendo al reo confesso la possibilità di ottenere l’agognata catarsi e di svergognarsi senza ritegno di fronte all’intero Paese, con una proclamazione di colpevolezza che è più una carezza allo smisurato ego nazionale. «I’ve betrayed the public trust», ammette infine Whitaker, e non potrebbe esserci frase migliore per ringalluzzire gli animi di una nazione che concepisce come “scandalo” l’eventuale possibilità che Beyoncé abbia cantato “The Star-Spangled Banner” in playback di fronte al Presidente ri-eletto.

Insomma, un uomo non può essere un eroe se la sua coscienza non è immacolata, se non ha la dignità e il coraggio di ammettere pubblicamente il proprio errore. E non è forse questa la solita minestra riscaldata che Hollywood ci propina a cucchiaiate da mezzo secolo a questa parte? Gatins, bisogna ammetterlo, condisce la favoletta sentenziosa e presuntuosamente edificante con un paio di trovate ammirevoli (la tentazione del frigo-bar, la sniffata rinvigorente), e Zemeckis ci mette del suo dirigendo con innegabile bravura una sequenza d’apertura strepitosa, che pone lo spettatore nei panni del passeggero terrorizzato. La caduta, tuttavia, è inevitabile, prevedibile come tutto ciò che la precede, e niente e nessuno può fare nulla per arrestarla.

Anziché lanciare frecciatine sarcastiche contro i canadesi (che già Ben Affleck si era premurato di castigare in Argo), allora, sarebbe forse il caso che ogni tanto anche gli americani si prendessero l’umile briga di guardare in casa propria, se non proprio per rinnegare, quanto meno per evitare di attribuire riconoscimenti a film che continuano a perpetuare lo stanco refrain dell’auto-celebrazione morale. E a Zemeckis, che dire? Forse un bel Ritorno al Passato non potrebbe che giovargli.

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Voto degli utenti: 6,9/10 in media su 7 voti.

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tramblogy alle 22:37 del 18 maggio 2013 ha scritto:

Come come come????!!!!....questo qui e' quasi un nove...i primi 25 minuti sono uno schianto da panico cinematografico....il resto una favolina d'amore molto toccante, e senza toccare mai il banale ....forse hai le idee in po' confuse....

hayleystark, autore, alle 23:09 del 18 maggio 2013 ha scritto:

Forse abbiamo visto due film diversi...

tramblogy alle 23:08 del 19 maggio 2013 ha scritto:

No, abbiamo visto lo stesso, solo che tu non credi piu ai sogni. Anche quelli ancora esistenti, da svegli.

Faria (ha votato 7 questo film) alle 14:50 del primo luglio 2013 ha scritto:

Sono d'accordo con te quando dici che il film potrebbe essere un trattato di auto-celebrazione morale, infatti penso che, se si togliessero i 5 minuti finali, il film sarebbe stato almeno da 8. Insomma secondo me è stato il finale a rovinare il film.