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7/10

The Help regia di Tate Taylor

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi

Jackson, Mississipi. Eugenia "Skeeter" Phelan (Emma Stone) ritorna a casa dopo quattro anni di college con l'ambizione di diventare scrittrice. Il clima intollerante della sua città natale - fomentato dalle crociate razziste delle amiche di un tempo - la spinge ad affrontare il più spinoso degli argomenti: raccontare il punto di vista delle domestiche di colore, con il prezioso aiuto (in tutti i sensi) di Aibileen (Viola Davis) e Minny (Octavia Spencer).

«Se riuscite ad amare il vostro nemico avete vinto», recita la parola del Signore; quanto sia difficile metterla in pratica nel Sud razzista degli Stati Uniti anni '60 lo racconta invece The Help, adattamento in salsa hollywoodiana dell'omonimo best-seller metaletterario di Kathryn Stockett. Alla sua terza prova come regista e sceneggiatore, è l'attore Tate Taylor ad occuparsene, trovando nel bel romanzo della Stockett - affresco storico dal sapore autobiografico - l'occasione perfetta per guadagnarsi l'attenzione della critica.

Con cinque nomination ai recenti Golden Globe - inclusa quella per il miglior film e la vittoria di Octavia Spencer come migliore attrice non protagonista - e una potenziale ricandidatura agli Oscar, il suo The Help ha infatti tutte le carte in regole per conquistare i membri dell'Academy, sempre attenti a mostrare un occhio di riguardo verso pellicole dalla mentalità apparentemente aperta ma al contempo impegnate a contenere in modo politicamente corretto la propria carica "sovversiva".

Se gli abiti color pastello della costumista Sharen Davis e la ridente ricostruzione scenografica di Mark Ricker fossero sufficienti a dar conto delle drammatiche condizioni storico-sociali esplorate dal triplice racconto della Stockett, il film di Taylor avrebbe senz'altro centrato l'obiettivo. Peccato che il mito dell'America auto-celebrativa - crogiolante nella panatura dorata della sua stessa, esibita tolleranza (come il famoso pollo fritto dell'irosa Minny Jackson) - intervenga a sbarrargli la strada. In una sceneggiatura che pure si prefigge di rendere con fedeltà la propria matrice romanzesca, Taylor riversa la propria lezione "fieldiana", preoccupandosi più della scorrevolezza della storia che non del suo portato rivoluzionario. E, di certo, l'atmosfera dei Sixties realizzata da un reparto tecnico-artistico assai competente (ma un po' "tradizionalista") non vibra di caustica inquietudine quanto quella dei Mad Men di amc.

All'interno di una narrazione univoca, condotta dispersivamente dalla voce-over della domestica Aibileen (una splendida Viola Davis), si estingue l'eterogeneità di punti di vista contemplata dal romanzo, così come la ricchezza linguistica da essa generata. Le sfumature di pensiero atte a definire una seppur minima distinzione tra "donna bianca" e "donna nera" - unite, sì, da un'amicizia ribelle e da una causa comune, ma ancora segnate da profonde disparità sociali - vengono così assorbite in un discorso generico e vagamente fiabesco: una bella storia dal finale lieto ma non troppo, che elude il realismo proposto dalla Stockett per abbracciare un più indifferenziato manicheismo.

I confini del bianco e del nero - cifre "ideologiche" dominanti nella mentalità dell'epoca - anziché essere tracciati con la mobilità realistica proposta dal romanzo (capace di cogliere con grazia ma anche con durezza pregi e difetti di entrambe le prospettive) vengono piuttosto tagliati con l'accetta, sfociando ora in un buonismo esagerato (quello di Skeeter), ora in un estremismo che dovrebbe proporsi incrollabile ma che finisce col suscitare quasi un moto di compassione non richiesto (verso l'insopportabile Miss Hilly Hoolbrook).

Con il suo metro e 68 e la sua bellezza sproporzionata, l'emergente Emma Stone ha poco o niente della ragazza sgraziata, altissima e mascolina descritta dall'autrice di The Help, così come l'algida Bryce Dallas Howard della sfatta Miss Hilly, di cui riesce comunque a offrire un ritratto all'altezza del personaggio. Nulla da eccepire, invece, alle interpretazioni di Viola Davis, Octavia Spencer e della strepitosa Jessica Chastain (per lei annus mirabilis): chi con ironia quasi caricaturale, chi con spirito verace e commovente (il finale è da lacrimoni), riescono a sottrarre l'essenza del romanzo all'eccessiva "ripulitura" messa in atto dal regista.

Taylor sottopone infatti l'originale letterario ad una generosa operazione di "chirurgia estetica", volta ad adombrare, e talvolta omettere del tutto, la sgradevole realtà in esso descritta. Il degrado della malattia (subito esplicitata e neppure conservata come coup de théâtre), il dramma "sporco" dell'aborto e della violenza domestica (dentro e fuori le mura) vengono bypassate con nonchalance, come ad evitare una contaminazione della scena. La questione sociale non ha modo di dipanarsi e a ricordarla restano soltanto accenni ripetuti ma vaghi, frustrati dalle dimensioni necessariamente contenute del lavoro filmico.

Meschinità e ipocrisia galleggiano sulla superficie del problema, senza intaccarla in profondità, limitandosi ad un grido isterico nella notte o all'esposizione ridicola di orinatoi duchampiani da giardino, mentre la sola, vera provocazione è quella, disgustosa, del sabotaggio gastronomico. La letteratura in copertina celeste apre, forse, la strada al vento del cambiamento, ma è pur sempre la ragazza bianca di belle speranze a lasciare il Sud retrogrado per la sfolgorante New York, e alle sue alleate non resta che sognare un futuro migliore, più televisori sintonizzati su una giusta causa e meno porte sbattute in faccia.

Se, poi, perfino gli episodi che potrebbero determinare il passaggio dalla cronaca finzionale alla pregnanza culturale vengono ricondotti in seno ad una "normalizzazione" cinematografica, è chiaro che la crociata libertaria di Skeeter e compagne non possa aspirare a maggior riconoscimento dell'essere semplicemente una buona storia ben raccontata. Un atteggiamento simile poteva essere, forse, accettabile negli anni '90, dove l'ansia eteronormativa aveva ancora una sua ragion d'essere, ma ad oggi non dovrebbe essere più tollerato. Pretendere dai cineasti un grado di innovazione e di temerarietà superiori al passato - soprattutto nell'ambito del mainstream americano (se non altro per il numero di spettatori cui è in grado di rivolgersi) - non è solo auspicabile, ma necessario. Il tempo della retorica è scaduto: "osare" è l'unico imperativo ammissibile, e qualcuno dovrebbe farlo presente a signori come Tate Taylor.

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Peasyfloyd (ha votato 8 questo film) alle 1:42 del 5 aprile 2012 ha scritto:

analisi precisa e puntuale di Fulvia, come al solito. Però non ne condivido le critiche. Anzi gli elementi che segnala mi sembrano rafforzativi nel carattere di denuncia dell'opera: gli aspetti più degradanti (aborto, le varie violenze) non vengono bypassati con nonchalance per scelta della regia, ma per dare un senso a quello che avveniva in quegli anni, in cui il patriarcato era realtà congenita, quotidiana e introiettata dalle stesse donne, che arrivano a colpevolizzarse da sole per colpe che sono di altri (vedi il caso dell'aborto). Questa è una cosa che deve dare il senso della questione di fondo: la progressiva presa di coscienza da parte delle donne della necessità di rendere pubblici problemi privati, capendo che solo dalla loro condivisione (e conseguente ricerca di una soluzione collettiva) può venire un miglioramento delle condizioni di vita. Il fatto conseguente che alla fine ad andarsene a New York sia la bianca benestante e non le povere donne di colore viene spiegato bene nel film: paradossalmente la ragazza bianca è ancor più emarginata delle sue "simili", e non potrebbe mai trovare realizzazione personale in un ambiente sì ostile. Le donne di colore invece sono diventati coscienti, orgogliose, consce di avere davanti un futuro fatto di lotte, privazioni e meschinità (come quella del finale, commovente), ma a cui guardano sapendo di poter alzare la testa, per dare un futuro ai loro figli. E sanno che, unite, possono cambiare qualcosa. Il finale rafforza addirittura di più il senso di forza e di dignità della comunità afro-americana, rispetto a quello della comunità bianca che pur messo davanti alle proprie vergogne non riesce a reagire in altro modo che facendo ricorso alla propria forza di "classe" (la stronza che mangia merda), oppure rifugiandosi nel proprio ideale paradisiaco autocostruitosi ma in realtà inesistente (come fa il ragazzo di Skeeter).

Grande film insomma. Anche questo andrebbe fatto vedere nelle scuole (un giorno dovrò mettermi a fare la lista, così quando avrò una cattedra avrò già il lavoro pronto eheh)

tramblogy alle 17:49 del 5 aprile 2012 ha scritto:

Bellissimo!