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7/10

Biutiful regia di Alejandro González Iñárritu

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi

In una Barcellona sordida e corrotta Uxbal vive di espedienti e sfruttamento clandestino, cercando di tenere i due figli all'oscuro dei suoi traffici e di far fronte all'instabilità mentale della moglie. Un cancro che lo divora da tempo gli lascia soltanto due mesi per chiudere i conti con la vita.

Alejandro Iñárritu balla da solo: dopo la fine del sodalizio artistico con lo sceneggiatore Guillermo Arriaga, il regista messicano adatta per lo schermo un soggetto personale - ennesima variazione sul tema della miseria umana - raccontando le ultime otto settimane di vita di un antieroe tragicamente votato all'autodistruzione. Candidato all'Oscar come miglior film straniero (per Iñárritu è la terza nomination), Biutiful tradisce nella sgrammaticatura del titolo una bellezza inesistente, corrosa dalle metastasi del degrado e dell'abiezione: un inferno in terra di cui Uxbal, profeta senza dio, percorre tutti i gironi.

Una lotta disperata per la sopravvivenza e una disumana logica del profitto sono gli unici motori di un'esistenza che si trascina stancamente tra violenza e squallore, nella bruttezza ruvida che permea di sé le strade corrotte di Santa Coloma e i volti degli hollow men che le popolano. I buoni sentimenti non sopravvivono né tantomeno aiutano a sopravvivere: affetto paterno e maldestra filantropia soccombono alla spirale infernale di un mondo privo di ragione, in bilico costante tra crimine e legalità. Perfino l'amore, che in 21 Grammi rappresentava l'unica via di fuga da una vita devastata, è ormai impotente, congelato nella sua impossibilità di attuarsi.

Traghettatore di anime impaurite, Uxbal conosce la morte, non la teme, eppure l'orrore della realtà lo sconvolge ancora: quell'orrore che si cela dietro la porta chiusa di una cantina, tra cadaveri contratti e spiriti che vagano in cerca di qualcuno che li lasci riposare in pace. La violenza (dei manganelli e dell'indifferenza) è la moneta sonante di questo atomo opaco di male in cui la morte sembra, infine, l'unica consolazione. Morire, dormire, forse sognare...la liminalità di Uxbal non sa collocarsi che a metà tra due mondi: i suoi occhi di gufo morente si chiudono su una realtà per riaprirsi in un'altra, dove i fantasmi del passato ridono e non fanno più paura.

Senza la guida di Arriaga e la magnifica coralità delle sue storie dolorosamente intrecciate, lo script di Iñárritu si sfalda in una molteplicità di spunti che non riescono a restare coesi. L'odissea joyceana in terra spagnola di Uxbal, nella sua insignificanza, vorrebbe aprirsi alle vite degli altri ma senza riuscirci veramente. Lo sguardo che devia dall'agonia del protagonista si posa ora sul dramma di una coppia omosessuale, ora su quello di una famiglia senegalese spaccata dalla clandestinità, ma senza mai essere incisivo, inquadrando storie abortite che non vanno da nessuna parte.

Iñárritu ha l'innato talento di saper sondare gli abissi del degrado umano con agghiacciante realismo, rappresentandone impietosamente i dettagli più rivoltanti. La sua estetica della desolazione, che non sa e non vuole essere gradevole, mira a colpire lo stomaco e il cuore prima ancora del cervello e in tal senso si spiega la collaborazione costante con artisti dallo stile inconfondibile. Le musiche strazianti di Gustavo Santaolalla e la fotografia di Rodrigo Prieto, capace di infondere uno splendore conturbante anche ai luoghi e alle vite più miserabili, si amalgamano all'intento registico di tracciare una parabola della decadenza umana senza indulgere nella critica sociale, né in quella morale.

Ma gli ingredienti sono troppi e la miscela non calibrata a dovere: le lodevoli intenzioni e le buone intuizioni soccombono a un concentrato eccessivo di disgrazie che non trova nella risata sardonica à la Coen (A Serious Man) una valvola di sfogo in cui stemperarsi. Javier Bardem, sublime sineddoche umana dell'universo intero (e del suo dolore), è forse l'unica incarnazione della bellezza distorta del titolo: degnamente premiato a Cannes (ex-aequo con Germano) e candidato all'Oscar come miglior attore protagonista (per la prima volta nella storia per un'interpretazione interamente in lingua spagnola), non è in grado, da sé, di rendere grande l’opera ultima di un cineasta dalle enormi potenzialità.

V Voti

Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 4 voti.
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alexmn 8/10

C Commenti

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Marco_Biasio alle 17:50 del 11 febbraio 2011 ha scritto:

Bellissima recensione, ottimo lavoro Fulvia! Da giorni sono indeciso se andarlo a vedere o no. Non avrei pressochè nessun motivo per non farlo, se non fosse per una regia, quella di Inarritu, che ho sempre amato poco.

hayleystark, autore, alle 19:02 del 11 febbraio 2011 ha scritto:

Bè..grazie! Guarda, io ho avuto il problema opposto, Inarritu mi è sempre piaciuto molto, qui invece l'ho trovato un po' spaesato. Credo che il "divorzio" non abbia fatto molto bene né a lui né ad Arriaga..

Marco_Biasio alle 20:39 del 11 febbraio 2011 ha scritto:

RE:

Lo andrò a vedere e ti so dire Nel frattempo complimenti per l'avatar (Ellen Page in "Hard Candy" o sbaglio?)!

hayleystark, autore, alle 20:40 del 11 febbraio 2011 ha scritto:

Proprio lei Ormai è praticamente un alter ego..

Peasyfloyd (ha votato 6 questo film) alle 21:59 del 24 settembre 2011 ha scritto:

aò Inarritu qua è stato un po' troppo pesante (più del solito ecco...)

hayleystark, autore, alle 8:37 del 25 settembre 2011 ha scritto:

RE:

Un po' troppa sfiga tutta in una volta sola...