21 Grammi regia di Alejandro González Iñárritu
DrammaticoJack (Benicio Del Toro), un ex-detenuto divenuto un credente integralista. Christina (Naomi Watts), ex-tossicodipendente a cui muoiono marito e due figllie. Paul (Sean Penn), professore di matematica in attesa di un trapianto di cuore. Tre vite apparentemente slegate tra loro che finiranno invece per dipendere strettamente l'una dall'altra
Lo spazio di alcuni secondi capace di travolgere la vita di tre nuclei familiari, dimostrando come ogni evento sia collegato ad un altro e come l’indifferenza sia un sentimento poco adatto alla specie umana. La periferia statunitense come centro vitale di intrecci d’amore ed odio, di vendetta e redenzione. La noia, la voglia di avere un figlio, l’elaborazione del lutto, la tragedia dell’omicidio. In breve: il senso della vita e il rapporto con la morte. Tre attori di primo livello in splendida forma incantano per due ore abbondanti lo spettatore, riuscendo a coinvolgerlo nonostante la difficoltà della struttura, da alcuni definita autocompiaciuta e barocca.
L’incastro delle tre storia si complica con la sovrapposizione di più piani temporali, con una sperimentazione nella struttura che accompagna i flah-forward con un coraggioso cambio di fotografia, salti temporali e ottiche dei protagonisti. Il montaggio si declina di tinte originali, a discapito di una linearità del tutto assente nella prima parte e recuperata nel finale, dove infatti si fa più fatica a restare immuni da qualche moto d’insofferenza. Probabile che senza il trittico Del Toro – Penn – Watts il tutto non reggerebbe, soprattutto per il livello non inedito del plot, dove si confondo fervore religioso, cinismo apatico e ricerca della felicità. Il tema dell’identità in rapporto con i limiti umani, la morte e la nascita. È vero che tutto va avanti? Verso dove? Ha senso il teatrino che va in scena sulla Terra? Quale ruolo hanno i 21 grammi che paga l’anima nel trapasso?
Il nervosismo delle cineprese senza cavalletto e lo splendido lavoro tecnico esentano il regista dall’accusa di eccesso. Dubbi nascono sui contenuti. La sensazione di confusione nasce probabilmente dall’essere davanti ad “un film messicano interpretato quasi soltanto da attori anglosassoni” e prodotto negli USA (Gian Luigi Rondi), sceneggiato dallo stesso Guillermo Arriaga che aveva accompagnato il regista nel suo esordio cinematografico (questa è la seconda prova per Inàrritu).
Il fascino di Del Toro, l’indiscutibile talento di Penn e l’attrazione della Watts. Il montaggio, la fotografia e la regia. Su questi punti non c’è possibilità di avanzare forti critiche. C’è il rischio che lungo la durata della pellicola l’insofferenza si scateni sui contenuti, su dialoghi non particolarmente coinvolgenti e soluzioni narrative sopraesposte.
Pieno di spunti filosofici su cui quasi tutto hanno avuto occasione di discutere davanti a una birra. La vita, la morte e tutto ciò che gira intorno.
Due lunghe ore, difficile definire l’esito per lo spettatore.
Bello, profondo, magnifico o costruito bene ma autocelebravito, eccessivo e privo di sostanza?
Forse il giudizio migliore sta nel mezzo, capace di non sopravalutare un’opera coraggiosa anche se non completamente riuscita.
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