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5/10

Il Cacciatore di Giganti regia di Bryan Singer

Avventura
recensione di Antonio Falcone

In quel di Cloister, villaggio medievale inglese, l’orfano Jack (Nicholas Hoult) è incaricato dallo zio di vendere cavallo e carretto al mercato, finendo col cederlo ad un misterioso fraticello per un sacchetto di fagioli, dopo tutta una serie di disavventure, rese meno dolorose dall’incontro con la principessa Isabelle (Eleanor Tomlinson), promessa sposa dal padre sovrano regnante (Ian McShane), nonostante manifesta contraria volontà, a Lord Roderick (Stanley Tucci). La fanciulla sarà protagonista, insieme a Jack e l’esercito reale, di un’ incredibile avventura, resa possibile proprio grazie a quei semplici legumi …

Diretto da Bryan Singer, su sceneggiatura di  Darren Lemke, Chistopher McQuarrie e Dan Studney, Il cacciatore di giganti  si basa su due racconti popolari inglesi (Jack and the Beanstalk / Jack the Giant Killer, il primo dei quali noto in Italia come Jack e il fagiolo magico o Jack e la pianta di fagioli) e va ad inserirsi nella scia tracciata dalla tendenza hollywoodiana di riprendere fiabe del passato e connotarle di caratteristiche proprie dei generi fantasy ed avventura, spesso inserite, non senza qualche stridore, in una narrazione caratterizzata in origine da una certa essenzialità narrativa, incentrata su emotività e senso del puro incanto.

Sinceramente il film non mi ha del tutto convinto, nella ferma sensazione di un certo disagio espresso da Singer nell’integrare sequenze reali con quelle rese in digitale o performance capture, le quali finiscono per prendere presto il sopravvento, offrendo in definitiva una caratterizzazione essenzialmente ludico- visiva. Un kolossal rutilante e roboante, facile all’oblio a “festa finita”, quando si scende dall’ ottovolante senza che dentro ti rimanga alcuna emozione sincera a livello di afflato propriamente fanciullesco, con in più la rabbia per un 3d che poteva essere tranquillamente evitato, non offrendo alcun apporto aggiuntivo alla visuale classica di uno spettatore in sala, se non nel reciproco rapporto visivo giganti/esseri umani.

Certo, ho apprezzato il buon assunto di partenza, espresso già in fase di scrittura, accogliere e rendere proprio il senso della fiaba effettivamente detto, quello più puro, facendo leva sul sentore fantastico e sulle potenzialità d’arricchirsi nel corso dei secoli di inediti particolari, che la connotano ulteriormente, anche considerando le diverse modalità d’acquisizione, sino a divenire leggenda. Singer, in buona sostanza, insieme agli sceneggiatori, si è calato nei panni di un moderno menestrello per narrare una storia antica in una forma nuova, inserendo all’interno di una struttura narrativa semplice, lineare, la spettacolarità propria degli effetti speciali, cercando di conferire inedita caratterizzazione alle illustrazioni proprie di un libro di fiabe, tra rimandi e citazioni.

Pur nel suddetto impianto classico, la narrazione  non riesce a conferire il giusto risalto a temi quali perseveranza e graduale consapevolezza del proprio valore, all’interno di un percorso formativo, nell’affrontare l’ignoto fra voglia d’avventura e conoscenza (la pianta di fagioli e la sua scalata). Non giovano al riguardo né un Hoult piuttosto amebico nell’esprimere il dualismo fra innocenza di uomo comune e il carisma dell’eroe, né l’interpretazione, altrettanto incolore, offerta dalla Tomlinson relativamente al parallelo femminile Isabelle, altra metà della mela in fieri, fra pose e atteggiamenti da Merida, la “collega” di Ribelle-The Brave, il cartoon Disney Pixar.

Così, alla fine, finiscono con l’avere risalto i toni da macchietta del pur “bravo cattivone” Tucci, perfetto “nano fra i colossi” nell’esprimere la sua brama di potere, o  la cattiveria digitale di Fallon (Bill Nighy), il generale bicefalo dei giganti nel mondo di Gantua, senza dimenticare il comunque non disprezzabile tono ironico da buon guascone di Ewan McGregor nei panni della guardia reale Elmont. Il piglio è certo  scanzonato, a volte inutilmente greve (i giganti zozzi, mocciolosi e tendenti a darsi un po’ di arie, facendo di metafora opportuno uso), e il buon Singer indovina qualche sequenza (il confronto tra l’infanzia, e poi l’adolescenza, di Jack ed Isabelle, evidenziando l’identica volontà di conoscere il mondo, con la fantasia a fare da  comune denominatore riguardo quanto entrambi, per motivi diversi, non possono permettersi) e altre decisamente meno (il maldestro prologo sulle origini dei giganti). La narrazione procede farraginosa, a sbalzi, con tre finali, l’ultimo sorprendentemente geniale nell’unire fiaba, leggenda e realtà in una sorta di circolarità, peccato non faccia presagire nulla di buono, almeno se sceneggiatura e regia si manterranno a questi livelli di alternanza tra valide idee malamente espresse ( ex aequo fra le due) e resa visiva da lunapark: ucci ucci sento odor di seguitucci .

V Voti

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