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8/10

L Impareggiabile Godfrey regia di Gregory La Cava

Sentimentale
recensione di Antonio Falcone

In un’eccentrica e ricca famiglia americana, padre, madre e due figlie, viene assunto come maggiordomo Godfrey, un barbone scovato proprio dalle due affascinanti e viziate fanciulle nel corso di un caccia al tesoro. Il suo particolare aplomb, il modo di fare calmo, distaccato, cui non difetta inoltre una certa perspicacia, avrà non poche ripercussioni nelle vicende familiari, dando vita a tutta una serie di particolari situazioni, sino all’inevitabile e classico lieto fine.

 

Gregory La Cava (1892- 1952) rientra nel novero di quei registi della “vecchia Hollywood”  che meriterebbero una riscoperta concreta e definitiva, vuoi per la fascinazione visiva espressa dalla elegante composizione delle immagini, vuoi per la grande attenzione rivolta alla recitazione di ogni singolo attore, delineando con particolare efficacia la psicologia dei personaggi femminili. Una caratteristica quest’ultima che lo accomuna a George Cukor, così come, da un punto di vista formale, è evidente nella costruzione complessiva delle sue opere un’impostazione simile a quella di Frank Capra, anche se l’impianto di La Cava appare più moderno e graffiante, volto ad un forte realismo.

Attivo nel cinema già negli anni del muto (esordì nel settore dell’animazione, collaborando, fra gli altri, con Walter Lantz e girò anche delle comiche a basso costo), con l’avvento del sonoro La Cava si specializzò nel genere a lui più congeniale, quello delle commedie. My Man Godfrey è il film che gli diede la notorietà, ottenendo sei nomination agli Oscar: miglior regia, attrice protagonista (Carole Lombard) e non protagonista (Alice Brady), attore protagonista (William Powell) e non protagonista (Mischa Auer), migliore sceneggiatura non originale (Morrie Ryskind ed Eric Hatch, dall’ omonimo romanzo di quest’ultimo, pubblicato a puntate sulla rivista Liberty). Nel ’57 ne venne girato un pallido remake, per la regia di Henry Koster, con David Niven e June Allyson interpreti principali.

La contrapposizione  tra ambienti differenti viene già evidenziato dai titoli di testa, lo skyline  stilizzato della città di New York e i crediti del film a fare da insegne luminose, mentre la mdp ci conduce lungo il Queensboro Bridge, fermandosi presso la discarica, là dove vivono, in misere baracche, “i dimenticati”, le vittime della Grande Depressione. Qui si ferma una lussuosa auto, dalla quale scendono un cicisbeo e due giovani signore, alla ricerca di “qualcosa che nessuno vuole”,  una sorta di caccia al tesoro. Un barbone sarebbe certo utile al riguardo, ed allora una delle fanciulle, Cornelia (Gail Patrick), con modi sprezzanti, offre cinque dollari ad un certo Godfrey (W.Powell), ma si vede opporre un rifiuto, con tanto di capitombolo fra il pattume. Ha più fortuna sua sorella Irene (C. Lombard), candida ed eterea, che non solo riesce a condurre l’uomo con sé, ma lo assume come maggiordomo.

E così il nostro, dopo le due donne e le loro stramberie, può ora conoscerne i genitori, Alexander (Eugene Palette), che deve la sua fortuna a speculazioni in Borsa, ed Angelica Bullock (A. Brady), svagata e con qualche problema d’alcolismo, che ospita in casa il suo protegée Carlo (M. Auer), sedicente artista, il cui unico talento espresso è quello di rimpinzarsi in ogni occasione. Una vera gabbia di matti, dove sarà proprio Godfrey, che non è propriamente ciò che sembra, e di cui Irene si è ormai invaghita, a portare, tra l’altro, un minimo di sano equilibrio …

Sostenuto da una valida sceneggiatura, con dialoghi brillanti connotati da sferzante sarcasmo, la Cava riesce a mettere in scena un’efficace mediazione tra sophisticated (l’ambientazione) e screwball comedy (la caratterizzazione dei protagonisti), rappresentando l’incomunicabilità tra diverse classi sociali, espressa soprattutto a livello morale, la perdita e il recupero degli antichi ideali e valori, nell’America che cerca di risollevarsi dalla crisi economica. Piuttosto felice il melange tra comicità, in parte debitrice delle vecchie comiche del muto, e la sapida psicologia dei personaggi, espressa anche grazie alla perfetta sintonia tra i vari interpreti, con scene memorabili (tra le tante, oltre l’apertura e il finale, certamente l’arrivo alla festa di Godfrey, il risveglio post sbornia della sig.ra Bullock, la doccia “redentrice” di Irene).

Difficile dimenticare l’aplomb di Powell/Godfrey, tra leggiadra sagacia e beffarda ironia, profuse entrambe a piene mani, la volubilità apparente della splendida Lombard/Irene, spirito libero costretto nell’ etichetta del rango sociale, così amabilmente ingenua nel suo incedere verso la fascinazione amorosa più pura e trascinante, vista come ciò che potrà dare ordine alla propria esistenza. Tutto il contrario della sorella Cornelia, algida e perfida, che si crogiola nei suoi agi da bambina viziata, incapace d’immaginare un diverso percorso di vita nel fronteggiare il conto che quest’ultima, inevitabilmente, finirà col presentarle. Godfrey vede in lei ciò che lui è stato, ricco rampollo finito sul lastrico (moralmente) per via di una delusione amorosa, tornato a vivere dopo aver appreso l’importanza di non arrendersi mai e la necessità del venirsi incontro reciproco, l’esprimere riconoscenza per ogni gesto d’aiuto.

Proprio lui, che ha conosciuto lo stile di vita di entrambe le classi sociali, può farsi ora ago della bilancia, elemento di contatto “puro”, ma non propriamente di confluenza: se i “dimenticati”, infatti, spesso orfani di un già sperimentato agio, sanno riconoscere e ad apprezzare un gesto di generosità, coloro che sono stati baciati da un improvviso benessere e tornati per le sberle della sorte al loro stato primigenio, hanno difficoltà  a comprenderne valore ed importanza. Lo stesso happy end è, a mio avviso, solo apparente, e rivela l’indole sardonica propria del regista: la scena del matrimonio tra Godfrey ed Irene, su spinta propulsiva di quest’ultima,  lascia in sospeso il fatidico sì,  dopo quel “Stai calmo Godfrey, sarà tutto finito in un minuto”, riferibile tanto alla durata della cerimonia che a quella della loro unione … Come scrisse Giacomo Leopardi , “Il più solido piacere di questa vita, è il piacere vano delle illusioni” ( Zibaldone di pensieri ).

                                                                              

 

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