Sergio Leone
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“Mi sembra che oggi il cinema rischi una vera e propria regressione, trasformandosi in un intrattenimento puramente infantile”
Sergio Leone
Figlio d'arte (il padre Vincenzo Leone, conosciuto come Roberto Roberti, è stato uno dei pionieri del cinema muto italiano), Sergio Leone ha iniziato giovanissimo a lavorare nel mondo del cinema. Nato a Roma nel 1929 già nel 1948 ebbe la fortuna di farsi le ossa come assistente alla regia (e attore in una parte secondaria) di Vittorio De Sica sul set di Ladri di biciclette.
Negli anni '50 continua la gavetta con collaborazioni prestigiose nei kolossal Quo Vadis (1951), Elena di Troia (1956) e Ben-Hur (1959). A fine decennio il salto di qualità con la stesura delle prime sceneggiature (Afrodite, dea dell'amore del 1958) e soprattutto Gli ultimi giorni di Pompei (1959) in cui si trova anche a fare il suo esordio alla regia per sostituire Mario Bonnard, alle prese con problemi di salute. Questa ampia esperienza maturata nel genere e nella collaborazione con i maestri del cinema hollywoodiano (confesserà a riguardo il suo debito affermando: “Fui totalmente affascinato da... Hollywood... devo aver visto almeno trecento film al mese per due o tre anni. Western, commedie, film di gangster, storie di guerra: tutto quello che mi capitava a disposizione”) gli permise di ottenere la regia del kolossal italiano Il colosso di Rodi (1961), realizzato con la scarsità di mezzi canonica per il cinema italiano dell'epoca.
Il grande salto di qualità, che marchia a fuoco nella storia il nome di Sergio Leone, avviene però con la cosiddetta “Trilogia del Dollaro”, ossia quei tre film in cui il genere western viene strappato dall'icona di John Wayne & John Ford e rimodulato “all'italiana”, tanto da meritarsi il nuovo marchio di “spaghetti-western”. Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto e il cattivo (1966) sono opere che segnano un'epoca, grazie alle citazioni colte (il primo della serie trae ampio spunto da La sfida del samurai di Kurosawa, tanto da essere accusato di plagio), alla collaborazione del musicista-artista Ennio Morricone e alla scoperta di una nuova stella del cinema mondiale: Clint Eastwood.
L'enorme successo di queste pellicole darà vita florida ad un redivivo genere western che vedrà cimentarsi autori del livello di Lucio Fulci, Sergio Corbucci, Mario Bava e Carlo Lizzani.
Sull'onda della nuova popolarità acquisita Leone viene chiamato ad Hollywood dove realizza altri due capolavori del genere come C'era una volta il west (1968) e il “rivoluzionario” Giù la testa (1971), che ne attesta in maniera esplicita anche le simpatie politiche in un'epoca di forti conflitti sociali.
L'avventura nel genere western (anche se non accreditata per sua stessa volontà) termina con Il mio nome è nessuno (1973) che sembra un'ulteriore parodia colta di quello (spaghetti-western) che per molti è già una deviazione parodica del genere.
L'ultima grande fatica dell'autore è C'era una volta in America, clamorosa svolta verso il filone mafia/gangster che sembra l'ideale prosecuzione del Padrino di Coppola di un decennio precedente.
Leone muore nel 1989 per un infarto mentre è alle prese con un progetto di cui possiamo solo immaginare l'epicità e la grandezza: Assedio di Leningrado...
Nonostante la scarsità di film realizzati il cinema di Leone ha avuto un influsso enorme sui suoi contemporanei e sugli autori successivi, come Quentin Tarantino ammette candidamente, ma anche John Woo, Martin Scorsese, Clint Eastwood, Brian De Palma, Sam Peckinpah e tanti altri. Al di là del merito di aver fatto rivivere un genere ritenuto dai più morto e sepolto è la tecnica cinematografica che lo rende immortale, con un uso della macchina da presa eccezionale. I suoi stringenti primi piani sullo sguardo di Clint Eastwood spiegano più di molto altro l'aspetto tipicamente post-moderno che vede un'attenzione nuova per i particolari e per la narrazione, così come altrettanto fanno la capacità di usare in maniera nuova carrellate, campi lunghi, musica e assenza di musica (quei silenzi assordanti tipici dei duelli...). Il crudo realismo e la violenza delle sue storie e dei suoi eroi (rimodulati con sfumature positive-negative in anti-eroi, ossia in protagonisti più umani e meno idealizzati) hanno ridefinito un'estetica e un modo di fare cinema più “politico”, per l'ampia attenzione che viene dedicata alla gente di strada, al popolo, agli umili. Il tutto senza appesantimenti ideologici o dogmatici, perchè come diceva l'autore “il cinema dev'essere spettacolo, è questo che il pubblico vuole. E per me lo spettacolo più bello è quello del mito.”
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