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7/10

Il Colosso Di Rodi regia di Sergio Leone

Storico
recensione di Alessandro Pascale

Nel III secolo a.C. l'ateniese Dario è in vacanza a Rodi dove cresce il malcontento popolare contro re Serse, costruttore del famoso colosso. Dario fa la corte a Dalia, figlia dell'architetto creatore del Colosso. A Corte però all'insaputa di tutti ci sono intrighi e complotti per sostituire Serse grazie all'appoggio dei Fenici, interessati alla posizione strategica dell'isola. Quando tutto sembra perduto scoppia un terremoto e succederà di tutto...

Il Colosso di Rodi è il vero esordio alla regia di Sergio Leone, se escludiamo l'esperienza de Gli ultimi giorni di Pompei (1959) in cui sostituì in corsa un ammalato Mario Bonnard.

Il filone è quello su cui Leone ha fatto maggiore esperienza negli anni '50, lavorando anche assieme a maestri del calibro di Stanley Kubrick in Ben-Hur: un intreccio tra l'interesse per la storia antica, la mitologia e l'epico-fantastico.

Da questo punto di vista Il Colosso di Rodi è un'opera che merita rispetto per il risultato più che discreto in rapporto ai canoni dell'epoca. Dal punto di vista stilistico si registra un certo conformismo di un'autore che ancora non osa lasciar campo libero alle proprie intuizioni e tentazioni. Ciò nonostante la regia rimane pulita e formalmente curata, con citazionismi colti (la scena del duello avvenuta sul Colosso è un omaggio a Intrigo internazionale di Hitchcock) ed un'attenzione precisa alla fotografia e ad uno svolgimento lineare e pulito della narrazione.

Ugualmente nella media sono le prove attoriali dell'elegante eroe ateniese Dario (Rory Calhoun, colui che successivamente fece il “gran rifiuto” di interpretare Per un pugno di dollari), e dell'incantevole Diala (la diva Lea Massari, qui nel ruolo di femme fatale che nasconde ambizioni e sete di potere).

Emergono già però alcune caratteristiche che renderanno famoso il cinema di Leone: innanzitutto l'aspetto progressista su cui è impostata tutta l'opera: la lotta tra schiavi e un regime tirannico, che vede l'esaltazione dei primi, attraverso l'esaltazione della libertà di un popolo (“la libertà di un popolo vale più di sei vite umane”, sentenzia uno dei capi ribelli con accento un po' machiavellico). Da una parte quindi l'ascetismo e l'esaltazione di figure solide e rigide, non solo nel fisico ma anche nello spirito. Dall'altra il lusso, la pesantezza fisica e morale, la decadenza della corte reale, che diventa però motivo di spettacolo estetico per lo spettatore, incantato dai sontuosi costumi e dalla maestosità delle feste in cui si ritrova uno sguardo stilistico assai prossimo al cinema delle origini, con l'uso policentrico di motivi ludici che stordiscono e affascinano chi cerca di trovare un motore principale della scena che in realtà non c'è (tipico per l'appunto della ricerca di spettacolità fine a sé stessa delle prime opere dei Lumière).

L'attenzione per gli umili, gli oppressi si collega allo slancio delle folle, del popolo, che diventa protagonista nel finale con la liberazione ottenuta a prezzo del sangue. In mezzo ampio spazio al tema amoroso-sentimentale, canovaccio classico e passaggio quasi obbligato, e per una nutrita serie di battaglie e scontri militari, in cui si mette a fuoco un altro elemento cardine dell'estetica di Leone: l'uso smodato della rappresentazione della violenza, estremizzata in certe scene in maniera brutale e sadica (vedi le torture svolte con l'uso del metallo fuso). L'idealismo si scontra con la dura realtà, e l'autore non risparmia la visione dei traumi e dei dolori conseguenza di questo conflitto.

Discutibile nella sua ironia e spettacolarità fine a sé stessa il finale dell'opera, in cui si fa subodorare l'ingresso in scena del Divino (irato dall'arroganza dell'uomo e dal suo Colosso?) che con un terremoto prima consente di fatto la vittoria degli oppressi, poi però ne causa la strage radendo al suolo tutta la polis. La deviazione verso il genere catastrofico appare totalmente gratuita e funzionale a mettere in scena ottimi effetti speciali senz'altro di particolare gusto per l'epoca. Ma serve anche a portare alle estreme conseguenze l'occhio cinico dell'autore, che nel rifiuto più totale dei canoni morali hollywoodiani classici, fa morire vecchi, donne e bambini senza troppa distinzione.

Sostanzialmente Il Colosso di Rodi è ancora un'opera parziale che denota alcune immaturità e incertezze. Ma è anche il ponte di lancio che l'autore usa per introdurre alcuni elementi tematici avanzati che verranno adattati con grande successo al contesto western nella Trilogia del dollaro. E in ogni caso resta una visione tutto sommato godibile. Il che non guasta.

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