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7/10

Dieu Vomit les Tiedes regia di Robert Guediguian

Drammatico
recensione di Allegra Mistretta

Quattro amici si ritrovano dopo tanto tempo, mentre una serie di misteriosi omicidi sembra spezzare d'un tratto l'ordinarietà delle loro vite.

Dieu vomit les tièdes ("Dio vomita i tiepidi"), annuncia un passaggio dell'Apocalisse: si scaglia contro il tepore dell'ignavia, l'inesorabile punto di arrivo di una classe operaia tanto cara a Robert Guédiguian, ormai disillusa e rassegnata a rinunciare a combattere.

La narrazione pulita del regista francese si intreccia nel mostrare le immagini dei quattro personaggi protagonisti (due dei quali sono interpretati da attori già presenti nei tre film precedenti del regista, Gérard Meylan e l'onnipresente moglie Ariane Ascaride - gli altri due, Pierre Banderet e Jean-Pierre Darroussin, si rivedranno nelle pellicole successive) nei momenti vissuti assieme nell'infanzia, alternandole a quelle successive al rientro di Cochise, il protagonista, lo scrittore di successo che decide di punto in bianco di abbandonare la vita agiata parigina per fare ritorno a casa della madre, quando il gruppo si ritrova ormai invecchiato e povero non solo di denaro, ma anche di parole: "Salvadanaio", l'unica donna del gruppo, è una cameriera, Frisé fa il pittore e Quattrocchi è il caporedattore di una testata locale. Il tutto nello sfondo di una Marsiglia che rivela i suoi angoli più poveri ed umili, quelli del quartiere popolare dell'Estaque, con la presenza costante del grande ponte girevole sul canale di Caronte, lo stesso dove trova la morte Toni nell'omonimo lungometraggio di Jean Renoir del 1934, anticipatore del neorealismo italiano tanto legato ai drammi degli ambienti popolari e che Guédiguian ci ripropone in una chiave più moderna, per farcela sentire vicina, farcela vivere tacitamente.

Ci troviamo in un 1989 nel pieno dei preparativi dei festeggiamenti del bicentenario della Rivoluzione Francese ma l'aria di rivoluzione questa volta non si respira, a gravare sulle spalle delle classi popolari c'è soltanto tanta stanchezza: se i quattro amici, nelle scene che li mostrano da bambini, sembrano maneggiarsi con destrezza il loro destino, prendendosi addirittura il diritto di decidere di che morte sarebbe dovuto morire il loro cane (destinato dal veterinario alla soppressione) e firmando col sangue giuramenti facinorosi, dettati dalla disperazione della povertà, da adulti i sogni eversivi dell'infanzia sono stati soverchiati da un malcontento tangibile e concreto.

È attraverso questa perdita di speranze che Guédiguian mette a nudo la contradditorietà dell'etica della classe operaia, quella volontà appassionata di cambiamento e di riscatto che finisce però svelarsi un'illusione, quell'utopia che Frisé tenta di concretizzare eliminando attraverso la sua silenziosa spedizione punitiva in solitario i "parassiti" del microcosmo (un piccolo mondo a sè stante, fagocitato dalla società capitalista e spietata) miserabile della classe disagiata di cui lui stesso è parte integrante. La risposta di Cochise alla confessione di Frisé è il culmine del pathos della tragedia, la perdita di ogni barlume di speranza e lo sprofondamento in un baratro in cui tutto è sbagliato ma anche concesso, perché mostra come ognuno, per sopravvivere nella società attuale, sia costretto a seguire egoisticamente i propri ideali e farsi giustizia da solo.

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