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10/10

La Grande Illusione regia di Jean Renoir

Guerra
recensione di A. Graziosi

Nella lista dei film preferiti di Woody Allen. Orson Welles l’avrebbe scelto come film da portare con sé sull’arca di noè. Uno dei grandi capolavori del cinema.

La grande illusione consiste quindi nel credere che questa guerra sia l’ultima.

(F.Truffaut)

Liberamente ispirato alle esperienze realmente vissute dal regista Jean Renoir (nipote del famoso pittore Auguste) durante la Prima Guerra Mondiale (dove rimase ferito a una gamba, rimanendo claudicante per sempre, a causa di una caduta aerea), il film venne decretato da Goebbels come il "nemico cinematografico numero uno" e fu osteggiato da critica e regimi totalitari, proprio perché minava la logicità delle basi patriottiche su cui si reggevano. Sarebbe difficile definire La grande illusione come un film di guerra, dato che non c’è nemmeno un’esplosione o una scena di battaglia: è un film carceriario e un film contro la guerra.

Si potrebbe giustamente ribattere che praticamente tutti i film di guerra sono, in un modo o nell’altro, contro la guerra (esclusi quelli smaccatamente propagandistici…), anche perché altrimenti si assisterebbe a proteste internazionali (che ipocrisia…) e il film non potrebbe proprio circolare. Non si tratta di un pacifismo indie o fricchettone o comunista, ma di qualcosa di più universale: senza alcuna retorica o verbosità, la guerra viene smontata in poche graffianti battute come l’evento senza alcun senso e completamente contro la natura umana, come realmente è. La differenza più grande è però nel fatto che è un film non solo contro la guerra, ma anche contro il concetto di sacrificio e di eroismo, cosa che pochissimi film hanno fatto nella storia del cinema.

Ciò avviene soprattutto per bocca del famosissimo attore francese Jean Gabin che interpreta il tenente popolano Marechàl, contrapposto invece ai nobili capitano de Boeldieu (P. Fresnay) e capitano tedesco von Rauffenstein (il regista Eric von Stroheim). I primi due francesi rimangono prigionieri di guerra, imprigionati in diversi campi di concentramento tedeschi, fino a quando finiscono nel castello super-blindato del vecchio capitano tedesco interpretato da Stroheim, nemico con il quale il nobile capitano francese sembra trovarsi addirittura più a suo agio che con gli altri ufficiali francesi prigionieri… Il film sostiene la tesi per cui le barriere orizzontali (ovvero quelle sociali) alla realtà dei fatti contano spesso di più di quelle verticali (nazionali), questione che era assolutamente veritiera, almeno fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, che rimise totalmente in discussione le regole della guerra come gioco/sport aristocratico.

La guerra appare qui come appannaggio desiderato e bramato solamente dalle classi dominanti, all’epoca ovvero la nobiltà, che per riscattarsi da una vita ritenuta insoddisfacente si buttano in braccio, per questioni di “onore”, alla cosiddetta bella morte. Il punto è che solamente una classe in decadenza poteva voler morire in guerra (e in generale morire) con amore, proprio perché malata e fuori dalla realtà fino al midollo.

Le altre classi, rappresentate da Marechàl e dall’ebreo borghese Rosenthal, vogliono vivere, come è giusto e naturale che sia: non vogliono avere niente a che fare con questo orribile mostro chiamato guerra. Se vanno in guerra è solo perché costretti, perché senza scelta. Meglio disertare, scappare e cercare di sopravvivere come ogni essere umano sano di mente e ogni animale farebbero, e cosa importa se la contadina a cui stai tendendo la mano è tedesca e quindi “nemica”? La grande illusione è dunque una dichiarazione dell’insensatezza totale di tutte le divisioni politiche umane, grazie però all’insensatezza della quale si giunge a un finale bellissimo che non vi anticipo. Un capolavoro da vedere almeno una volta nella vita, perché non esiste onore che tenga di fronte al valore della vita umana, e non si tratta di un valore religioso o morale: è il valore dato dal semplice fatto che di vita ne esiste una sola...

 

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