R Recensione

8/10

Le Bruit des Arbres regia di Francois Peloquin

Drammatico
recensione di Fulvia Massimi

Il diciassettenne Jérémie “Jay” Otis (Antoine L’Écuyer) vive con il padre silvicoltore (Roy Dupuis) in un villaggio del Quebec, schiacciato tra la foresta e la riva meridionale del fiume San Lorenzo. Le sue giornate trascorrono tra goliardate con gli amici, corse in macchina, droga, hip-hop e lavoretti occasionali, come meccanico e come aiutante nell’azienda paterna dopo la partenza del fratello maggiore. Ma la vita sognata da Jay è altrove, lontano da quei luoghi in cui l’acquisto di un trattore può segnare il confine fra il successo e il declino. 

“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”, scriveva Cesare Pavese ne La Luna e i Falò, e sebbene lontanissimo – nella traiettoria storica come in quella geografica – dal romanzo dell’autore piemontese, il lungometraggio d’esordio del québécois François Péloquin sembra specchiarsi alla perfezione in quelle parole scritte ormai sessantacinque anni fa.

Presentato in concorso al Festival Internazionale del Cinema di Karlovy Vary tra i riscontri positivi di critica e pubblico, Le Bruit des Arbres racconta con l’efficacia della semplicità la realtà periferica e rurale del Quebec contemporaneo, recuperando nell’estetica e nei temi lo spirito intraprendente dei giovani filmmakers raggruppati da Patricia Bailey sotto l’etichetta (non necessariamente condivisa dagli stessi) di “Quebec New Wave“.

L’eco di Tout est Parfait (2008) di Yves Christian Fournier – tra gli araldi della “Nuova Onda” – si fa (ri)sentire con forza in Le Bruit des Arbres, che non si sottrae nè all’angoscia dei toni, nè all’apertura del finale, ma che pure sa contenere la tragedia entro una dimensione più raccolta. L’alienazione generata da una routine priva di scopo e il suicidio come unica di via di fuga restano dunque a significare, seppur con minore spettacolarità e ineluttabilità, l’asperità della vita provincial-rurale, ma il film di Péloquin sceglie una via più delicata per delineare il racconto (breve) di formazione della gioventù québécoise di oggi. O meglio, del maschio québécois  di oggi, e dell’uomo québécois  di domani.

Inserendosi nel solco della cinematografia franco-canadese d’epoca post-revoluzionaria (dove la rivoluzione è quella tranquilla degli anni ’60) e post-referendaria (ossia della doppia sconfitta datata 1980-1995), Le Bruit des Arbres recupera il topos della mascolinità québécoise in crisi identitaria come sintomo della mancata conquista d’indipendenza. Da Mon Oncle Antoine (1971) di Claude Jutra a À l’origine d’un cri (2010) di Robin Aubert – passando attraverso Un zoo la nuit (1987) di Jean-Claude Lauzon e Le Confessionnal  (1995) di Robert Lepage – la cinematografia della provincia canadese francofona ha messo in scena le debolezze del maschio (sub)nazionale con precisione chirurgica, facendo proprio il concetto dell’homme blessé di chéreauiana memoria.

Péloquin si rifà allora a tale tradizione per tratteggiare il rapporto tra Jay e il padre Régis, che non è solo il rapporto diegetico tra una figura paterna ancorata alle modalità “old school” della vita rurale e una filiale stimolata dai richiami geografici e culturali del mondo urbano, ma anche il confronto extra-diegetico tra Dupuis come star-simbolo del cinema quebecois anni ’90-2000, e L’Écuyer come metafora di una nuova era, più giovane, più fresca, più interessata a raccontare il presente senza lasciarsi necessariamente frenare dai localismi di stampo nazional-separatista. 

Perchè Quebec non vuol dire soltanto Montreal, ma Quebec non può e non vuole solamente dire nemmeno provincia isolata e assoluta nel suo scioglimento di legami con il mondo metropolitano e con il continente nord-americano che ne ingloba la specificità francofona. In questo senso Péloquin, come già Fournier, fa un lavoro egregio, realizzando una pellicola che è fusione stilistica e narrativa di due mondi, due spiriti (perchè il terzo, quello indigeno, è ahimè troppo spesso relegato alla nicchia dell’oblio) che si compenetrano determinando la peculiarità della cultura ibrida québécoise.

Scandito in una trentina di quadri-sequenza quasi auto-conclusivi, Les Bruit des Arbres alterna momenti di cinematografia indie à la Sundance (con annessa sub-plot pseudoromantica) a riprese panoramiche di contemplazione aerea, con sporadiche ma significative incursioni nella natura che respira, gonfiata da un afflato misterioso e immanente, che è poi il cuore della civilità stessa spolpato dalla mano avida dell’uomo. Ma è soprattutto nelle scelte musicali che l’osmosi delle anime nord-americana e franco-canadese si esprime con maggiore efficacia, là dove la scelta dei brani hip-hop non ricade sui volti noti del rap videoclipparo statunitense (cui il guardaroba di Jay tuttavia si ispira) ma alla produzione autoctona dei gruppi montrealesi Dead Obies e Loud Lary Ajust.

Ed è forse proprio nei versi rappati da Koriass in Devenir Fou che si manifesta il senso della traiettoria di Jay, il suo Bildungsroman ancora tutto da compiere. In quei versi che spiegano la grammatica del rap come voce dei poveri, non come arte aristocratica, ma come filosofia della strada in grado di comunicare attraverso il linguaggio dell’immediatezza la forza della critica sociale:

Fais quelque chose de constructif boy, quit le rap

J’le sais qu’on est la voix des pauvres, pas des aristocrates

Philosophes de fin de semaine avec des critiques sociales

Quella raccontata da François Péloquin e dalla co-sceneggiatrice Sarah Lévesque è allora, infine, una storia semplice, come semplice è l’anima del cinema québécois, troppo spesso vituperato dai suoi spettatori (specialmente se autoctoni) per i tratti cupi e deprimenti che sembrano contraddistinguerlo, anzichè venir lodato per la continua ricerca di realismo che risale fino alle radici pioneristiche del cinéma direct di Michel Brault Pierre Perrault. È una storia semplice, sì, ma di quelle che lasciano il segno e che, come gli alberi del titolo, fanno un rumore del diavolo quando si schiantano nel silenzio immobile della foresta.

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