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9/10

American Life regia di Sam Mendes

Commedia
recensione di Alessandro M. Naboni

Burt e Verona sono poco più che trentenni. Non sono sposati, ma vivono assieme ormai da molto. Stanno per avere una bambina. Appresa la notizia che i genitori di lui si trasferiranno in Europa, decidono di partire per un viaggio attraverso l’America per far visita ad amici e parenti alla ricerca del miglior posto dove far crescere la figlia e regalarle un’infanzia epica. Stupendo road-movie atipico dal regista premio Oscar per American Beauty.

Tanto sono predestinati, una volta che vengono al mondo sono fregati’.

Burt e Verona non la pensano così, per nulla. Credono che non è detto che la vita debba per forza essere una fregatura, fatta soltanto di (inutili) sacrifici per crescere figli (ingrati).

Trentenni da poco, più-o-meno-precari - ma forse in America non è così problematico - stanno per avere la loro prima figlia. Lei, artista orfana dei genitori, disegna stupendi interni di cadaveri. Lui tratta assicurazioni e future da milioni di dollari con colleghi cinquanta-sessantenni per cui sfodera una voce da vecchio speaker radiofonico americano, puro Jack Daniels style. Verona non vuole sposarsi perché è convinta che un contratto non possa cambiare o rafforzare i sentimenti tra due persone. Burt la pensa diversamente, attratto dalla sicurezza di una famiglia-di-diritto.

Tranquillità e certezze della giovane coppia vengono messe in discussione quando i genitori pseudo-new-age-in-realtà-egoisti di lui decidono di spostarsi nella città della luce, Anversa, a ben 5000 chilometri da dove nascerà la nipote. Burt e Verona credono falliti ma non lo sono, perché non scappano, non si nascondono. Lo capiranno in un surreale viaggio on-the-road per l’America, con deviazione canadese, per far visita a vecchi amici/colleghi/compagni di università alla ricerca del posto ‘migliore’ per dare un’infanzia epica alla figlioletta per ora ospitata nell’utero materno. Itinerario spillato sulla giacca trasandata verde militare, lasciano l’accogliente casa con la finestra di cartone e un fusibile blu al posto di quello rosso. Away we go.

Phoenix da Lily, con le sue tette cadenti e la frustrazione mal-celata, Lowell con la fissazione per l’apocalisse e i figli in piena fase adolescenziale. Tucson da Grace, l’amata sorellina che ha bisogno di essere rassicurata sulle sue scelte per il futuro. Madison, Wisconsin, dalla (non) cugina LN (si legge el-en): invasata new age e radical chic che predica bene perché ha un grosso fondo fiduciario con cui mantiene se stessa e il nullafacente compagno, all’insegna della fantomatica teoria del continuum. Montreal, dai compagni di università Tom e Munch: esistenza all’apparenza perfetta (e in parte lo è) che nasconde un’amarezza che sa di disperazione per quel figlio che non arriva e per i cinque aborti spontanei. Qui, fuori dai confini, capiscono davvero che c’è un modo per vivere la vita, per sopportare i tanti sacrifici, le notti insonni per i figli (adottati) che non stanno bene, il dover essere ancora più in gamba di quanto avresti mai potuto pensare: l’amor che move il sole e le altre stelle, ancora una volta aveva ragione Dante. In una delle scene più belle, Tom racconta che la famiglia non sono le persone (zucchero), i muri di una casa i mobili e tutto il resto (stuzzicadenti, poggiabicchiere e una frittella). È l’amore (sciroppo d’acero) che dà un senso a tutte queste cose. L’incontro con il fratello e la nipotina abbandonati senza motivo dalla moglie/madre è l’ultima prova prima di riuscire a capire cosa significhi veramente il concetto di casa.

Il loro non è il solito viaggio d’iniziazione per ritrovare sé stessi. È un sincero cammino di maturazione, quasi un esame prima di diventare genitori. Non partono con un fine spiritual-esistenziale, ma un per un’esigenza contingente, per qualcosa di concreto. Il fatto che poi trovino se stessi è conseguenza naturale e non scontata. La ricerca della felicità? Non necessariamente. Più che altro è la serenità, che è concetto ben diverso e più importante/desiderabile.

Ci si muove in zona indie-Coen, quella delle provincia lontana dai grattacieli, quella fatta di personaggi che potrebbero essere amici o parenti di Drugo o Ed Crane. L’inglese Sam Mendes ci racconta di nuovo l’America border-line, quella della gente comune, delle vite fatte di quotidiane gioie, dolori, problemi e situazioni anni luce lontani da astratte discussioni sui massimi sistemi. Abbandona il necessario cinismo asettico dei suoi primi film, American Beauty su tutti, per raccontarci una storia di crescita, di un amore forte alla ricerca di quella sicurezza che la nascita di una figlia potrebbe portare via. Verona è una mamma perfetta, non lo sa, ma lo scoprirà. Burt è buono-troppo-buono, ma non stupido. Sarà un padre capace di grandi sentimenti, perché è sincero e onesto con sé stesso e gli altri, e un marito che amerà la moglie anche se dovesse rimanere grassa per sempre. Si aiuteranno a vicenda in questo ‘viaggio’ di maturazione, l’uno sosterrà l’altro quando la sicurezza cede il passo alla fragilità figlia di un futuro incerto. Insieme costruiranno le basi di una famiglia vera, anche senza matrimonio perché un “contratto” non costituisce garanzia di felicità. Burt si fida della sincera promessa di Verona e questo è sufficiente. Non è un pamphlet anti-matrimonio, solo un inno anti-ipocrisia, contro tutte quelle unioni che sono e rimangono tali soltanto per vincoli diversi dall’amore (mutuo, figli, abitudine, paura di restare soli, ecc). Argomento scomodo che aleggia sottile per tutto il film.

Per la prima volta Mendes ‘tradisce’ il suo storico e geniale compositore, Thomas Newman, per Alexi Murdoch. Servivano altre atmosfere, altri suoni/mondi, una voce che avrebbe benissimo potuto essere quella di Burt. Murdoch realizza una colonna sonora splendida, necessario complemento alle immagini. George Harrison e un Bob Dylan in inedita versione ninna nanna a cappella impreziosiscono il tutto. Un Sam Mendes che non ti aspetti, che sa emozionare, far ridere e commuovere. Fa appassionare a personaggi con facce-più-che-giuste: John Krasinski e Maya Rudolph sono gli imprescindibili protagonisti di una empatia in crescendo dal primo all’ultimo fotogramma. Stupendi.

L’uscita natalizia (in notevole/colpevole ritardo, il film è del 2009) lo pone ad involontario confronto con Muccino jr, giovane che sforna vecchi film presuntuosi. Il regista inglese ne ha 45, di anni, e ha vinto 5 Oscar con American Beauty, il suo esordio alla regia (cinematografica). Eppure è più giovane (dentro) e sa mettersi in gioco con un bellissimo film atipico. Questione di prospettive.

V Voti

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alexmn 9/10

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