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8/10

Skyfall regia di Sam Mendes

Avventura
recensione di Cristina Coccia & Alessandro M. Naboni

La pellicola di apre ad Instanbul, durante un’azione di 007. Tra inseguimenti e fughe inarrestabili su moto e treni in corsa, stavolta, non è l’agente al servizio di Sua Maestà ad avere la meglio e la missione finisce nel peggiore dei modi. Bond è dichiarato morto, ma, intanto, si gode, una meritata e noiosa vacanza in Turchia. Purtroppo Londra è sotto assedio informatico e il quartier generale dell’MI6 viene attaccato da un cyber terrorista, entrato in possesso della lista degli agenti britannici in missione nel mondo. L’agente deve tornare in patria per difendere M, i suoi colleghi e la sua Inghilterra dalla minaccia che incombe su di loro. Nonostante le sue buone intenzioni, però, trova un ambiente inizialmente ostile: dichiarato morto, non ha più una casa, né un lavoro, e, per tornare operativo, deve superare dei test psico-fisici. Si rende conto, però, di essere cambiato, di essere stato segnato irrimediabilmente dagli anni, dalle sue missioni e dal disinganno nei confronti di una battaglia che non sa più con quali armi vincere. La sua guerra è, in parte, stavolta, anche con se stesso e con i suoi superiori.

Cristina Coccia (voto 8):

A distanza di cinquant’anni da 007 – Licenza di uccidere (1962), il primo lungometraggio con protagonista la celebre spia dell’MI6 interpretata da Sean Connery, esce nelle sale il terzo capitolo del Bond di Daniel Craig, totalmente discordante dal personaggio modellato sulla figura di Connery, ma certamente più intonato alle pagine di Ian Fleming. Craig dà al cinema, dal 2006, anno di uscita di Casino Royale, un Bond glaciale, tagliente e brutalmente fisico. Se Connery si limitava a vestire (magistralmente!) i panni di James Bond, Craig scolpisce, invece, nel granito, un personaggio sofferto, molto più umano, cesellando ogni espressione, ogni cicatrice, ogni spasmodico irrigidimento fisico e mentale.

Dopo i meravigliosi titoli di testa (probabilmente i più belli di sempre), si apre un nuovo scenario: siamo giunti ad un capitolo cupo della storia dell’Inghilterra, ma anche di quella di ogni altra Nazione. Ci sono nemici che bisogna combattere con armi diverse, nemici disancorati dai valori che fornivano ai vecchi eroi i punti di riferimento per i loro ideali, nemici che non si rivelano alla luce, ma agiscono nell’ombra, come sottolinea maestosamente Judi Dench, alias M, nell’aula di tribunale al cospetto del Ministro: “Vi sentite veramente sicuri? Non dobbiamo combattere un nemico tradizionale, uno stato, un esercito, ma un nemico nascosto nell’ombra”. Chi sono questi nemici, se non i fautori della crisi internazionale, economica, politica e culturale che investe l’Europa? La guerra è in atto e non è mai finita, ma è in continua trasformazione, con armi diverse, con schieramenti diversi, ma è evidentemente, più che mai, indispensabile. “La guerra è indispensabile per difendere la nostra vita da un distruttore che divorerebbe ogni cosa; ma io non amo la lucente spada per la sua lama tagliente, né la freccia per la sua rapidità, né il guerriero per la gloria acquisita. Amo solo ciò che difendo: la città degli uomini di Nùmenor; e desidero che la si ami per tutto ciò che custodisce di ricordi, antichità, bellezza ed eredità di saggezza.” dichiarava ne Le due torri, J.R.R. Tolkien, custode dei più nobili ideali inglesi e, adesso, le sue parole riecheggiano ancora più solenni, ancora più presenti, sempre, nelle nostre quotidiane battaglie.

Il Bond del 2012, di Skyfall e dell’esperto regista Mendes, sempre più maturo nelle sue pellicole difficili e delatrici di una condizione di disagio esistenziale, è un Bond distrutto, che architetta un piano di resurrezione, ma, contemporaneamente, soffoca sotto il peso del suo passato. È in bilico su una linea di demarcazione temporale e percepisce la presente rovina di un mondo che di giorno in giorno peggiora dinanzi ai suoi occhi; non accetta di vederlo cambiare senza poter intervenire, ma la sua eredità non gli consente di evolversi facilmente per fronteggiare la situazione. Per Mendes, c’è un dramma familiare anche in Skyfall, come nelle sue precedenti opere, da American Beauty al bellissimo Revolutionary Road, ed è nelle dinamiche familiari che vanno collocati gli scontri tra Bond, M e il fumettistico villain Silva, un istrionico Bardem, deturpato nella mente e nel corpo, sopravvissuto al crollo di tutto ciò in cui credeva e per cui lottava, un figlio adottivo di M, come Bond. Non si tratta solo di un conflitto edipico tra M e i suoi discepoli, ma di uno scontro tra un mondo vecchio ed uno moderno, più sleale, in cui l’unica verità tangibile è la caduta di ogni fede, di ogni ideale che proteggeva tutto, racchiudendo la realtà in un rifugio, preservato da un’immaginaria copertura eterea e intangibile, ma rassicurante.

Questa è la vera caduta, la Skyfall citata nel nome della dimora atavica di Bond, che ritorna alle sue origini per ricominciare, virtualmente, partendo dai suoi principi e per ritrovare la forza che sente di aver perduto. È pur sempre un eroe, ma di un mondo a cui sente di non appartenere più. Per avere la capacità di combattere ciò che è all’esterno, è evidente quanto sia necessario, prima di ogni altra cosa, risolvere i conflitti interiori, prima individuali, poi all’interno dei nuclei familiari, quindi amministrativi e governativi. Non si combattono i nemici nell’ombra se non si fa luce soprattutto sulle ombre celate dentro di noi. Come nella Londra sotterranea, protagonista del film, si ha sempre l’impressione di qualcosa di nascosto con cui dover fare i conti. In quest’ottica acquistano un senso anche le continue citazioni cinematografiche nella pellicola di Mendes, dalla battuta “Solo per i tuoi occhi”, in riferimento al film del 1981, e dai gadget di Q, all’Aston Martin DB5 che entra in scena con il classico tema in sottofondo, all’ingresso, in stile Apocalypse Now, di Silva in elicottero nella tenuta scozzese di Bond, fino ai due riferimenti visivi ad Hannibal Lecter (Daniel Craig nella scena in cui si sottopone ai test e la cella di detenzione di Bardem).

Stiamo parlando di un Bond del passato, di un eroe fuori dal tempo che resta per un attimo a guardare, che ripercorre dall’inizio il suo viaggio, giocando con gli specchi, in una messa in scena infinitamente simmetrica, caleidoscopica, spettacolare nelle bellissime rappresentazioni cromatiche e nelle angolature formali, imponenti, ma, al contempo, singolarmente introspettive. Per Mendes e per Roger Deakins, direttore della fotografia, nove volte candidato al Premio Oscar, autore della fotografia di 1984, è l’immagine stessa a fare da piano di simmetria tra l’esterno e l’interno, tra il nuovo e il vecchio, tra il passato e il futuro. E Bond deve decidere, come sempre, rapidamente, da che parte stare, come muoversi, da cosa fuggire. Intanto, riesce, inspiegabilmente, proprio perché è Bond, (e a lui si deve credere sempre, anche nel più incredibile dei contesti), a ritagliarsi i suoi tempi, ad uscire momentaneamente di scena per riordinare le idee. Per celebrare un personaggio che, nei suoi alti e bassi,oscillando tra pellicole insignificanti e veri cult degli Anni Settanta, ha segnato il cinema action e le spy-stories come nessun altro, possiamo soltanto ricordare il granitico volto di Daniel Craig, distaccato in quasi ogni situazione, totalmente in armonia con il paesaggio invernale e ostile di Glencoe, nelle Highlands scozzesi, quasi come se ne facesse naturalmente parte. Le vette inospitali e rocciose sono lo specchio della sua natura, sono il suo inizio e la sua fine e l’unica verità a cui può aggrapparsi. Lì ha la sua nascita e lì la sua resurrezione. Dopo Skyfall non si torna più indietro, se non con una prospettiva totalmente stravolta, perché Bond ha avuto la sua caduta e, contemporaneamente, nel cadere, ha visto il suo punto massimo di splendore, come il diamante può duro e splendente di tutta la saga.

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Alessandro M. Naboni (voto 9):

In principio era lo scozzese travolto dall’insolito riemergere della bellissima sirena Ursula Andress in un azzurro mare caraibico. Dr. No – Licenza di uccidere con il giovane e poco conosciuto Sean Connery uscì nel 1962: il film diretto da Terence Young e prodotto da Harry Saltzman e Albert R. Broccoli fu subito un successo. Per le opere del romanziere-per-noia Ian Fleming iniziò una liason cinematografica arrivata nel 2012 al suo 23esimo episodio in cinquant’anni.

Connery girò sei Bond (più uno dei tre film apocrifi, non prodotti dalla famiglia Broccoli), con solo una pausa dove l’agente della regina venne interpretato dal trascurabile George Lazenby con il suo capello di brillantina-scolpito. Gli anni ’70-’80 furono quelli del belloccio Roger Moore, lo 007 più longevo con ben sette film, e poi dello sguardo triste del sottovalutato Timothy Dalton. Gli anni ’90 videro sullo schermo l’affascinante Pierce Brosnan e il suo sorriso piacione per cui il mondo non era mai abbastanza. Nel 2006, dopo una pausa di riflessione di quattro anni, le note del tema composto da Monty Norman tornarono a risuonare in una sala cinematografica, ma qualcosa era cambiato: la scelta di Daniel Craig, inglese dai lineamenti algidi da-spia-russa, fu un’epifania assoluta, tanto fuori canone quanto fottutamente perfetto per incarnare il James Bond problematico-quindi-più-umano del nuovo millennio. Tanto potente da resistere agli eccessi soporiferi di Quantum of Solace diretto dallo svizzero Marc Forster con una verve registica che fa tornare alla memoria la battuta di Orson Welles ne Il terzo uomo In Italy, for thirty years under the Borgias, they had warfare, terror, murder and bloodshed - they produced Michelangelo, Leonardo Da Vinci and the Renaissance. In Switzerland, they had brotherly love and five hundred years of democracy and peace, and what did they produce? The cuckoo clock – e al rischio fallimento della MGM che nel 2010 aveva sospeso a tempo indeterminato la produzione del 23esimo Bond.

Inizio in puro old-style. Un’inseguimento adrenalinico in quel di Istanbul per recuperare il drive con i nomi di tutti gli agenti segreti infiltrati nelle principali organizzazioni criminali: allegramente in Defender tra mercati di quartiere e strade trafficate, in moto sui tetti del Gran Bazar, il salto su un treno in corsa, giusto il tempo di sistemarsi il vestito, poi un bersaglio non pulito, la concitazione del momento e un ordine di M., il fuoco amico che impone all’agente doppio zero un salto nel vuoto e una morte da godersi tra donne e alcool. La classica sequenza gunbarrel precede l’apertura su una Londra rassegnata e crepuscolare nell’anima dove l’MI6, privato del suo uomo migliore, è vulnerabile agli attacchi di chi sa come arrivare indisturbato al cuore del suo quartier generale e alle accuse di chi sta valutando l’operato dei servizi segreti. Non è più il tempo di guerra fredda, terroristi internazionali o grosse organizzazioni criminali; questa volta la minaccia è più circoscritta, più sadica, una biond-ossigenata serpe in seno tanto invisibile quanto letale. Come la Gotham City di Nolan minacciata dal Joker, un (non)uomo solo che trascina a fondo un’intera città impotente con la sua follia borderline e il coraggio di chi non ha niente da perdere o forse soltanto non ha nessuna paura che possa succedere. La speranza è soltanto in una vecchia fenice con uno spirito simil-filiale che rinasce acciaccato dalle proprie ceneri.

Skyfall è una battaglia che si gioca su tre fronti. Il primo è quello generazionale: da una parte abbiamo una lotta tra presente-futuro, identificabili nella nuova minaccia informatica che sta mettendo in ginocchio l’MI6 e dal personaggio del giovane Q. (l’ottimo Ben Whishaw che prende il posto dello storico Desmond Llewelyn comparso in ben diciassette film della saga l’ultimo dei quali uscito poco prima della sua morte, alla faccia della scaramanzia numerologica) responsabile dell’equipaggiamento tecnico-tattico dei doppio zero; dall’altra abbiamo il passato-presente di M., dell’amato-odiato Bond e dell’antagonista Raoul Silva in un triangolo tragicamente shakespeariano. L’eterna contrapposizione tra passato e futuro che sublimano instabili in un presente paradossale dove l’uno sembra non poter sopravvivere all’altro che allo stesso tempo non può fare a meno del primo. Esheriano.

Il secondo aspetto, quello familiare-in-senso-lato, è anche il più complesso da sviscerare senza cadere nello spoiler. Per questo rimarrà soltanto una suggestione cui sarà facile dare un senso post-visione, una dinamica di relazione che rende ancora più intenso l’immancabile duello finale. L’ultimo fronte è quello del ritorno alle origini. La morte temporanea di Bond e l’attacco diretto al Military Intelligence – section 6 costringe tutto il servizio segreto ad un reset completo del sistema, a ripartire da dove tutto è iniziato, dalla storica Walther PPK (aggiornata con un sistema di riconoscimento dermico) alla magnifica Aston Martin DB5 – lacrime agli occhi – fino alla tenuta nella brughiera scozzese dove il piccolo James divenne troppo presto adulto. Un recupero che non sa di nostalgia, quanto di necessario passaggio per non soccombere definitivamente o essere rottamati come una gloriosa nave da guerra.

Quello che mancava al franchise di 007 era la firma di un regista di peso, tra ottimi artigiani della settima arte e tanti sogni irrealizzati come Quentin Tarantino o possibilmente futuri come Christopher Nolan. La scelta dell’Oscarizzato Sam Mendes (mi) aveva suscitato alcune perplessità, non tanto per la straordinaria carriera che conta il capolavoro assoluto American Beauty e un personale film del cuore come Away we go, quanto per l’incognita di capire se un regista che si è sempre focalizzato sull’attore sapesse gestire un action con tutte le sue dinamiche e i suoi ritmi. Senza troppi giri di parole, il primo pensiero sui titoli di coda è stato quello di aver assistito al migliore Bond mai visto, insieme forse a un paio di titoli dell’era Sean Connery (Missione Goldfinger e Dalla Russia con amore). Se Bond è da sempre un uomo del suo tempo che riflette il mondo reale che l’ha partorito, quello di Mendes eleva questa peculiarità all’ennesima potenza: Daniel Craig abbandona la spavalda sicurezza e i super-gadget del passato, senza però perdere la caratteristica cool guys don’t look at explosions teorizzata dal comico Adam Samberg del Saturday Night Live, per seguire un percorso doloroso di ricerca di sé stesso e uscire dalla crisi fisica ma soprattutto mentale che sta passando. La crisi, citando i Bluvertigo, c'è sempre ogni volta che qualcosa non va e la difficoltà sta nel trovare il coraggio di rimettersi in gioco per trovare una svolta. Analisi che lascerebbe il tempo che trova se alla regia non ci fosse Mendes, uno che ha dedicato il proprio cinema al racconto di equilibri umani destabilizzati e di certezze che non si trovano più dove sono sempre state.

Daniel Craig si dimostra di nuovo interprete perfetto per l’agente 007, arricchendo il personaggio con quella dose d’ironia tipica della serie ma che si era persa nei due precedenti film. In lui il mito di Bond ritrova la brillantezza dei primi episodi. Javier Bardem/Raoul Silva è una forza della natura che prima aleggia come una minaccia invisibile, poi irrompe sulla scena catturando tutta l’attenzione: la sua bravura sta nell’elevare il personaggio oltre la caratteristica del cattivo-macchietta verso un villain a-la-Hopkins in versione Hannibal Lecter. Magnifico istrione capace di creare inquietudini profonde che sanno esplodere come un fungo atomico sterminatore figlio di puttana o incancrenirsi visceralmente (come in Biutiful di Inarritu). Il suo personaggio è anche quello che risente maggiormente di alcune trascurabili debolezze di sceneggiatura. Judy Dench e Ralph Fiennes (capo dei rapporti con l’ufficio Intelligence) in forzata staffetta, il guardiacaccia con fucile Albert Finney e una Naomie Harris con la mira imprecisa e un celebre futuro dietro la scrivania completano un cast eccelso.

La qualità del comparto tecnico è assoluta. Innanzitutto la fotografia affidata a uno degli dei contemporanei, quel Roger Deakins da poco convertitosi al digitale (Arri Alexa) affermando che tornerebbe alla pellicola solo per un film dei fratelli Coen: il suo apporto visivo, insieme a quello di Dennis Gassner alla scenografia, permette un salto di qualità evidente anche ad un occhio non esperto. Poi il talento di Thomas Newman per una colonna sonora non certo sublime quanto quella di American Beauty o di WALL•E ma che non dimentica il suo stile personale e anti-classico. Un’ultima menzione al regista della seconda unità Alexander Witt, un ruolo quasi mai menzionato ma fondamentale in un film action di questa portata.

Va dato atto alla produzione (EON Productions), agli sceneggiatori (Purvis&Wade, rivisitati da John Logan che si occuperà in solitaria anche del prossimo capitolo) e a Sam Mendes di essere riusciti a ridare linfa vitale a un franchise auto compiaciuto che rischiava di esaurirsi disinnescato in una spirale auto poietica. Una mission impossible portata brillantemente a termine.

Everyone needs a hobby – So what's your? – Resurrection.

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Voto degli utenti: 7,6/10 in media su 10 voti.

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Alessandra Graziosi (ha votato 9 questo film) alle 4:53 del 12 novembre 2012 ha scritto:

Entrambe ottime recensioni per un magnifico 007: meglio di così non l'avrei saputo davvero immaginare, rivoluzionario e citazionista al tempo stesso. Mi ha letteralmente spiazzato! A proposito di citazioni, mi pare di ricordare che si era già vista un'arma "personalizzata al tatto" in "Licence to Kill/Vendetta privata" con Timothy Dalton... Sembra quasi che con Skyfall non si smetta mai di trovare citazioni e nuovi significati!

alejo90 (ha votato 6 questo film) alle 11:14 del 12 novembre 2012 ha scritto:

Due belle recensioni che confermano i giudizi entusiastici su questo film; mi tocca proprio andarlo a vedere!

Peasyfloyd, autore, (ha votato 8 questo film) alle 13:05 del 16 febbraio 2013 ha scritto:

eh si, uno 007 davvero notevole questo giro. Il tocco di Mendes si sente tutto!

alexmn (ha votato 9 questo film) alle 14:18 del 16 febbraio 2013 ha scritto:

e sembrerebbe che il buon mendes sarà alla regia anche del prossimo..

non immagino cosa sarebbe venuto fuori se mendes avesse potuto lavorare alla costruzione del personaggio (e del suo passato) fin da casino royale..sarebbe stata una trilogia pazzesca!

Bedobedin (ha votato 7 questo film) alle 20:40 del 13 maggio 2013 ha scritto:

Urka, che votazzi. Posso invece dire che a me è sembrato il "solito" film di james bond? Sicuramente, però, il migliore degli ultimi 3. L'(in)espressività di craig non riesco proprio a mandarla giù, abbiate pazienza... Per quanto sia un ottimo film d'azione, so già che tra un mese lo avrò già dimenticato. 7, tendente al 7.5