A Marlon Brando, Biografia di una Leggenda

Marlon Brando, Biografia di una Leggenda

Comprendere il pieno significato della vita è il dovere dell’attore, interpretarlo è il suo problema, ed esprimerlo è la sua passione”.

Quest’anno avrebbe compiuto 90 anni uno dei più grandi attori di sempre: Marlon Brando, nato il 3 aprile 1924 ad Omaha (Nebraska) e considerato la più grande stella di Hollywood e della storia del cinema americano, per aver recitato con un’empatia ed una comprensione istintiva tutti i ruoli che ha interpretato. E sicuramente nessuno dei più importanti attori quali Robert De Niro, Al Pacino, Robert Redford e Dustin Hoffman esiterebbe ad ammettere di aver preso lui a modello.

La più grande leggenda del cinema nacque da una famiglia di origini tedesche, olandesi, francesi ed inglesi emigrata negli Stati Uniti; dopo aver frequentato il liceo nell’Illinois, Marlon fu spedito all’Accademia Militare Shattuck nel Minnesota ma, non sopportandone l’atmosfera nazionalista e la rigida routine quotidiana, se ne andò a New York per studiare recitazione alla Dramatic Workshop sotto la direzione di Erwin Piscator. In questo “centro creativo” che rivoluzionò per sempre il teatro (si utilizzavano scene scarne ed illuminazione realistica) nacquero molti altri talenti che sarebbero emersi negli anni a venire: Tony Curtis, Walter Matthau, Rod Steiger, Stella Adler e persino Tennessee Williams. Dopo essere apparso in alcuni spettacoli alla New School, Brando fece il suo debutto a Broadway nel 1944, prima con la commedia sentimentale a episodi I Remember Mama, poi con l’opera politica A Flag is Born, entrambi di enorme successo. Entrato qualche anno prima a far parte dell’Actor’s Studio di Lee Strasberg, il quale sosteneva che l’attore dovesse trarre ispirazione dalla realtà ed imporre il proprio io all’opera, il talento di Brando venne consacrato con il ruolo del brutale Stanley Kowalski nel dramma Un tram che si chiama desiderio, portato al successo a teatro nel 1947, ed in seguito al cinema nel 1951 da Elia Kazan. In realtà l’attore esordì sul grande schermo l’anno precedente nel film di Fred Zinnemann, Il mio corpo ti appartiene: per prepararsi al ruolo di un soldato paraplegico, Brando si trasferì per sei settimane al Birmingham Veterans Hospital di Van Nuys (Los Angeles) e fece conoscenza diretta dei reduci di guerra rimasti paralizzati. Il risultato fu un’interpretazione di notevole forza, naturale e spontanea e la pellicola fu inserita nella lista dei migliori dieci film del 1950. Elia Kazan propose a Brando un ulteriore progetto interessante: Viva Zapata! (1952), la storia del leggendario patriota rivoluzionario messicano che gli valse il premio come migliore interpretazione maschile al Festival di Cannes del 1952. Contemporaneamente la Metro-Goldwyn-Mayer chiese all’attore se fosse interessato alla versione cinematografica di Giulio Cesare (1953) diretta da Joseph L. Mankiewicz: per interpretare al meglio il ruolo scespiriano, Brando lavorò duro per un mese, ascoltando le registrazioni di tutti gli attori inglesi che riuscì a trovare: purtroppo la risposta al botteghino fu fiacca e le recensioni del film furono tiepide, nonostante la candidatura all’Oscar ed un BAFTA vinto come Migliore Attore Internazionale. Nel 1953 arrivò Il selvaggio, la storia vera di un assedio di motociclisti a una cittadina vicino a Los Angeles: come sempre, Brando fece le consuete ricerche sul campo ed incontrò gang motociclistiche per assorbire l’ambiente reale, il loro modo di vestire e di parlare. Sebbene il film non fu un grande successo all’epoca, ebbe un’influenza profonda e duratura: l’immagine di Marlon Brando in moto, con giacca di pelle e jeans e brillantina sui capelli divenne simbolo della generazione anni Cinquanta, e persino James Dean e Montgomery Clift ne imitarono lo stile.

Dopo anni di assenza, Brando decise di tornare a teatro per interpretare Le armi e l’uomo di George Bernard Shaw, nel ruolo del pomposo generale bulgaro Sergius. Le sue performance furono a volte eccellenti, più spesso mediocri: il dilettantismo della produzione non permise l’approdo a Broadway, ma questa esperienza servì più che altro a rilassare Brando dopo la delusione de Il selvaggio. Ci pensò ancora una volta Elia Kazan a sollevare l’animo turbato dell’attore, proponendogli la sceneggiatura di Fronte del porto (1954): l’interpretazione dell’ex promettente pugile Terry Malloy fu premiata con l’Oscar e la pellicola, capolavoro della cinematografia americana, fu un colossale successo al botteghino. Nel corso degli anni Cinquanta continuarono i trionfi: prima con Desirée (1954), nel quale impersonò Napoleone Bonaparte, nonostante ritenesse la sceneggiatura ridicola, poi con Bulli e pupe (1955), entrambi al fianco di Jean Simmons. Intanto Brando si dava da fare anche sul piano sentimentale: da amante delle donne, ebbe innumerevoli storie. Nel 1955 conobbe la misteriosa Anna Kashfi, modella anglo-indiana, primo vero impegno emotivo per l’attore. Il rapporto dovette superare una prova di separazione, quando Brando fu trasferito in Giappone per le riprese di Casa da tè alla luna d’agosto (1956) al fianco di Glenn Ford, ma al ritorno dal viaggio regalò all’amata l’anello di fidanzamento appartenuto a sua madre.

Nel 1957 girò Sayonara, riduzione cinematografica del best-seller di James A. Michener: pur sapendo che il film non avrebbe raggiunto alte vette artistiche, Brando fu felice di tornare in Giappone, anche perché una parte di sé voleva scappare e tornare libera, nonostante il grande amore per Anna. Durante le riprese di Sayonara, a Brando venne proposto un nuovo progetto, I giovani leoni (1958), adattamento del romanzo di Irwin Shaw ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale. Co-protagonista, oltre a Dean Martin, è Montgomery Clift, considerato insieme a Brando e James Dean l’ideale triade di dèi dello schermo: dopo un iniziale gelo, i due diventarono cari amici e Brando cercò con i suoi consigli di far uscire il suo collega dalla spirale autodistruttiva (fatta di alcol e droga) che aveva rovinato il suo mirabile talento.

Dopo il divorzio dalla prima moglie, dalla quale ebbe un figlio (Brando si sarebbe sposato tre volte e avrebbe avuto in totale tredici figli, anche da relazioni illegittime), recitò al fianco di Anna Magnani in Pelle di serpente (1959) e in I due volti della vendetta (1961), sua prima ed unica regia. Per il film Gli ammutinati del Bounty (1962) gli venne garantito il diritto di approvazione della sceneggiatura e durante le riprese a Tahiti conobbe Tarita, che sposò nel 1962 dopo aver divorziato dall’attrice messicana Movita Castaneda. In seguito agli insuccessi commerciali di Missione in Oriente (1963), I due seduttori (1964) e I morituri (1965), l’attore viene scritturato per La caccia (1966), al fianco delle giovani stelle Robert Redford e Jane Fonda. Altri progetti vennero accolti male dalla critica, facendo pensare ad un declino della carriera di Brando: A sudovest di Sonora (1966), La contessa di Hong Kong (1967) con la regia di Charlie Chaplin, Riflessi in un occhio d’oro (1967), al fianco di Elizabeth Taylor, e Candy e il suo pazzo mondo (1968) insieme a Richard Burton. Il regista italiano Gillo Pontecorvo lo scelse come protagonista di Queimada (1969), film su una rivoluzione del diciassettesimo secolo nei Caraibi: l’attore fornì una performance altamente espressiva che gli permise di ritrovare l’apprezzamento di pubblico e di critica che sembravano ormai perduti.

Ma sarebbe stato un altro il ruolo che gli avrebbe permesso di riemergere dal fondo di quell’abisso professionale nel quale era sprofondato: Don Vito Corleone nel film di Francis Ford Coppola, Il Padrino (1972). Coppola decise che solo due attori avrebbero potuto interpretare quello che viene tuttora considerato il più grande personaggio nella storia del cinema: Laurence Olivier e Marlon Brando. Viste le cattive condizioni di salute del primo, il regista espresse il desiderio di avere Brando nel cast. Con un compenso di cinquecentomila dollari, l’attore si preparò alla parte come nei giorni della sua giovinezza, frequentando i veri delinquenti nei club di Greenwich Village. Il Padrino, visto come metafora dell’America, diventò il film di maggior successo dei suoi tempi e valse il secondo Oscar nel 1973 come Migliore Attore Protagonista, ma Brando si rifiutò di ritirare il premio in protesta contro la discriminazione verso i popoli dei nativi americani. Dopo l’enorme successo di Ultimo tango a Parigi (1974) per la regia di Bernardo Bertolucci, interpretò un western di discreto successo al fianco di un giovane Jack Nicholson, Missouri (1976), e Superman (1978): era chiaro a lui stesso che la sua carriera stava per finire (“Mi rimangono solo due colpi in canna”). La sua ultima grande interpretazione fu il film più ambizioso di Coppola, Apocalypse Now (1979), un’esplorazione seria e poetica degli orrori della guerra del Vietnam: nella parte del colonnello Kurtz, Brando, completamente rasato, si immedesimò totalmente nell’orrore interiore del suo personaggio, ultimo memorabile ruolo della sua incredibile carriera.

Scomparso il 1 luglio 2004, Marlon Brando rimarrà una leggenda, un’icona del nostro tempo dall’animo ribelle: senz’ombra di dubbio, il più carismatico e talentuoso attore della storia del cinema americano.

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