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7/10

I Giovani Leoni regia di Edward Dmytryk

Drammatico
recensione di Dmitrij Palagi

Un tedesco che guarda ad Hitler come alla speranza di una Germania migliore, con cui le disuguaglianze e l'umiliazione possano essere riscattate. Un ebreo americano timido e orgoglioso che si ritrova arruolato nell'esercito dello Zio Tom assieme ad un ricco e pavido borghese statunitense, con cui nascerà un'improbabile quanto solida amicizia. La Seconda Guerra Mondiale sul fronte occidentale, vista da entrambi i fronti e dalle retrovie inglesi. Una cronaca parziale dello scontro tra USA e Hitler

 

Un kolossal a metà tra una traccia convinta di pacifismo, che cerca di spezzare ogni dualismo implicato dalle guerre, e il cinema classico ad uso dell'opinione comune, per la quale il nemico non era più un Hitler sconfitto ma l'Unione Sovietica. Come dice un cinico, ma umano e sincero, Dean Martin: gli USA tra dieci anni saranno a braccetto con Germania e Giappone.

Semplificazioni e schematismi fanno pari con atmosfere cupe e intrecci non banali (in alcuni passaggi degni del noir d'autore). Si rischia la frammentazione degli episodi ma la recitazione riesce a tenere insieme anche quanto può apparire troppo didascalico (si veda il riassunto dei massacri nei campi di sterminio nazisti). Dell'antieroe Marlon Brando non c'è bisogno di innamorarsi o di simpatizzare: ci si limita a sentirsi vicini a quel calzolaio asceso ai sogni di Europa unita, compiacendosi del suo disgusto per i crimini tedeschi di cui progressivamente si rende conto. Dall'altra parte nessuna perfezione: Clift (conciato come Kafka nel suo ultimo anno di vita) convince nel ruolo del modesto ebreo che riesce a sfatare i pregiudizi con la sua onestà e perseveranza, Martin si fa perdonare gli odiosi difetti con la schiettezza delle sue scelte. Un film di guerra incentrato sugli aspetti umani dei tre protagonisti. Una sceneggiatura pompata e pretenziosa, tratta da un libro di Irwin Shaw, che qualcuno osava definire il “nuovo Tolstoj”.

Incassi storici, una grossa produzione, attori entrati nel mito: troppo, probabilmente. I limiti sono evidenti e siamo davanti a un Dmytryk lontano dalle prime pellicole, più tese e meno schematiche, pur conservandosi sottotraccia tematiche care al regista, come quella dell'antisemitismo diffuso, nella Germania nazista come negli Stati Uniti.

Come già detto i maggiori limiti si mostrano nella denuncia dei campi di concentramento: quando si cerca di raggiungere grandi numeri al botteghino spesso si finisce per trattare gli spettatori come poveri ignoranti, il problema è che spesso questo atteggiamento paga.

Ci sono elementi che verranno ripresi anche da nomi oggi più noti, quali Spielberg e Polanski.

Quello che si può percepire è una sorta di limite che costringe i 160 minuti dentro canoni classici, lasciando la sensazione che sia una libertà mutilata, dettata da cause di forza maggiore. Possibile che il regista, costretto ad abiurare la sua adesione al Partito comunista, che preferì ritrattare l'impegno politico per tornare a girare ad Hollywood, abbia risentito di questa condizione anche a livello artistico.

Il risultato è comunque capace di porsi come caposaldo dei war movies statunitensi, tentando di sgretolare i rigidi schemi del genere.

A Marlon Brando il merito di aver umanizzato il suo personaggio, rispetto al libro (e al copione originale): un uomo buono condizionato dalla società in cui vive e dall'educazione ricevuta.

Buono il montaggio, fortunata la scelta del bianco-nero, meno curata la parte storica, poco originale la struttura portante, ottima la recitazione, sceneggiatura non esente da qualche caduta. Carrellata di pregi e difetti che rende il senso di una pellicola ambivalente.

Manca di tensione etica e di approfondimenti riflessivi. Una scelta che si potrebbe leggere in una delle prime frasi del film: quando non si ha preparazione di politica si discute, si discute e non si arriva mai a niente.

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