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6/10

1921 - Il Mistero di Rookford regia di Nick Murphy

Thriller
recensione di Cristina Coccia

Nel 1921, l’Inghilterra postbellica è straziata dal ricordo dei caduti durante il primo conflitto mondiale e si diffonde la moda delle sedute spiritiche e dell’evocazione dei morti. La razionale e colta scrittrice Florence Cathcart, divenuta abilissima nello smascherare qualunque truffatore cerchi di lucrare con il sovrannaturale, accetta l’incarico di indagare sul fantasma di un bambino che aleggia nelle stanze del collegio di Rookford. Inizialmente sembra capace di risolvere ogni mistero, ma gli avvenimenti inspiegabili cominciano a mettere per la prima volta in dubbio ogni sua convinzione. L’ammissione dell’esistenza di fenomeni paranormali appare inevitabile…

Nonostante lo stile sia ben collaudato e richiami tutti gli schemi dell’horror vecchio stampo, Nick Murphy lavora bene con le ambientazioni sia esterne che interne, cesella dettagli e primi piani con le intime luci di candele e lanterne che prepotentemente invadono l’oscurità delle stanze di Rookford, spesso lasciando nella penombra quello che si cela allo sguardo. Gli esterni in aperta campagna e i lividi paesaggi inglesi velati di austerità prendono parte ai segreti quando ci si ferma ad analizzare i pontili o le statue: giocando sapientemente sulle inquadrature, ma soprattutto su ciò che si lascia al di fuori di esse, anche l’acqua apparentemente calma di un lago o di una vasca da bagno, può improvvisamente terrorizzare se funge da specchio di qualcosa che si nasconde ai nostri sensi. I respiri affannosi, le porti cigolanti e i silenzi conducono ad una tensione costante e profonda, efficace grazie al discreto utilizzo dei tempi. La scuola inglese, l’eleganza nella recitazione e nella fotografia dicono molto di più degli effetti speciali eccessivi di cui queste pellicole, solitamente, sono intrise.

Ma, come spesso accade in questo genere, si va anche oltre la paura, talvolta impiegata come strumento di analisi dei meccanismi mentali che porta in superficie. D’altra parte, anche in letteratura, il gothic novel si spinge a sondare l’oscurità, utilizzandola per indagare tanto gli aspetti più misteriosi, quanto quelli più mostruosi dell’esistenza, ma soprattutto della mente umana. In certi aspetti, il gotico e il fantastico, così come la fantascienza, sono generi che danno vita ad introspezioni di carattere psicologico, discostandosi da ciò che avviene fuori e riportando tutto il contesto ad una complessa analisi razionalista dell’elaborazione mentale. Spesso l’estrema razionalizzazione è il modo migliore per mascherare dubbi e uscire fuori dalle torbide acque dell’incertezza e dei timori. Si può spiegare quali siano i meccanismi scatenati dalla paura ma non cosa nasconda realmente. I fantasmi sono sempre stati un attraente espediente per richiamare l’inconscio e i suoi misteri, da Walpole, ad Allan Poe fino a giungere ai best sellers di King. Come raccontava H.P. Lovecraft, i fantasmi “ondeggiano e si muovono furtivi nelle visioni inconsce” e la brillante investigatrice del sovrannaturale, interpretata dall’elegantissima Rebecca Hall (statuaria attrice britannica) incarna alla perfezione i dubbi scaturiti dalla paura dell’ignoto. Il mistero di Rookford tiene altissima la tensione (fin quasi alla fine), giocando con la messa a fuoco, i primissimi piani e i dettagli o con brevi attimi di silenzio infranti da rumori fuori campo.

La narrazione non è il punto di forza perché, spesso, si perde in dialoghi eccessivamente lenti o in spiegazioni prolisse (soprattutto nel finale, inutilmente dilatato) e presenta delle pecche trascurabili (come la pallina rossa che irrompe nella scena per portare Florence a salire le scale o la relazione tra la protagonista e il professor Mallory); tuttavia, l’eleganza delle atmosfere, immerse in una luce che volutamente richiama il verde e il marrone (colori associati alla terra e alla sepoltura), è ben al di sopra della media. I rimandi, mai ostentati, a pellicole di genere come The Others, The Orphanage o alle opere di Guillermo del Toro (La Spina del Diavolo, fra tutte) conferiscono spessore ad un film supportato anche da un’ottima carica emotiva e da due eccellenti attrici: Imelda Staunton, interprete shakespeariana premiata con tre Laurence Olivier Award, dona al personaggio della governante Maud Hill una statica drammaticità, pur restando sempre in linea con la recitazione di Rebecca Hall.

Senza mai cadere nell’horror, questo thriller psicologico segue un filone gotico che sembra perfezionarsi continuamente e che invade anche opere già ampiamente sfruttate, come il recente Jane Eyre di Fukunaga, focalizzando sugli accostamenti antinomici tra reale e fantastico, tra percettibile e immaginato e tra definibile e ignoto. “Il buio più grande è quando non ci sforziamo di aprire gli occhi!" Infatti, la signorina Cathcart, influenzata dalle sue conoscenze scientifiche, crede fermamente che tutto si possa spiegare attraverso il materialismo razionale, ma, sorpresa dal senso di inquietudine e dall’inadeguatezza nel fornire spiegazioni dinanzi a fenomeni paranormali, non ha la capacità di vedere con altri occhi se non con quelli della paura. L’unico modo per definire qualcosa che non possiamo più misurare e categorizzare attraverso i nostri modelli scientifici attuali, come la presenza di intelligenze incorporee, è quello di collocarla nell’ambito delle suggestioni prodotte da menti psicotiche.

Eliminato il trauma, si elimina la suggestione negativa. E se questo fosse solo un rassicurante espediente per continuare a non vedere che, talvolta, esistono percezioni differenti da quelle esclusivamente sensoriali? La mente umana non contempla la possibilità di andare oltre ciò che può comprendere, deve liberarsi di quello che, con la ragione, non può spiegarsi, ma non è un po’ troppo facile archiviare in questo modo i dubbi sull’esistenza di forme di vita non corporee o sovrannaturali nel nostro stesso campo di percezione? I dubbi sono scomodi, vanno eliminati e bisogna essere sicuri di non lasciare che prendano il sopravvento. Ma i fantasmi forse sono lì, innominabili illusioni appartenenti alla notte o romantiche creature letterarie che fanno venir fuori le nostre passioni assopite e, se proprio vogliamo essere sinceri, spesso restano con noi silenziosamente, aleggiando sulle nostre paure, anche dopo le prime luci dell’alba.

Certamente gli spiriti, come li intende la nostra cultura contemporanea, hanno una funzione esclusivamente consolatoria, derivata, probabilmente, dalla nostra stessa mentalità razionalista e materialista, ma, dopo aver rinfrancato il nostro animo tormentato dal dolore di una perdita, devono andarsene, tornare in quell’ipotetico luogo da dove sono venuti. La superstizione, le credenze popolari e anche le nostre strutture mentali conferiscono a queste entità delle sembianze antropomorfe e danno loro perfino delle coordinate spaziali in cui muoversi, ma come facciamo a liberarci di questi scomodi coinquilini se non collocandoli nella sfera dell’impossibile o dell’illusorio? Così, forti di aver sconfitto i nostri timori, e di esserci liberati dai nostri mali, possiamo continuare a vivere felici. E così sia.

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