R Recensione

6/10

Il cammino della notte regia di Friedrich Wilhelm Murnau

Melodramma
recensione di Fabio Secchi Frau

Eigil, un medico, è fidanzato con Helen, una giovane donna dell’alta borghesia ma, disgraziatamente ha molto poco tempo per lei. Purtroppo, quando i due andranno a uno spettacolo di varietà, la ballerina Lily sedurrà, ingannandolo, il dottore, spingendolo a rompere il suo fidanzamento. Rifugiatisi in un paese sulla scogliera, la coppia sarà però divisa a sua volta da un pittore affetto da cecità che ha fatto breccia nel cuore di Lily.

   Prima fra le pellicole del grande maestro del cinema europeo e dell’Espressionismo tedesco, Friedrich Wilhelm Murnau, che non è fortunatamente andata perduta (una sorte che, purtroppo, è invece toccata a Il ragazzo in blu, Satana, Il gobbo e la ballerina e La testa di Giano, tutti film diretti fra il 1919 e il 1920), non ci è dato sapere se questa sia una versione originale o una copia ridotta per andare più incontro ai gusti del grande pubblico.

  Lotte Eisner, una delle più grandi estimatrici di Murnau e grande storica e studiosa del cinema tedesco, non prese mai veramente in considerazione questo titolo, ipotizzando che il regista fosse stato costretto a girare il film per motivi economici, scegliendo uno dei tanti script cui gli erano stati sottoposti.

  Il soggetto, usando le parole della stessa Eisner, è “incredibilmente primitivo” e ha come lacuna principale la stessa trama, già abbastanza abusata e superata all’inizio degli Anni Venti.

  Eppure, proprio nella crudezza di questo muto triangolo amoroso dal cieco scheletro melodrammatico, si nobilitano le sfumature di luci all’interno delle inquadrature per il quale era tanto famoso il regista. La sua padronanza nella tecnica fotografica guida la carica emotiva e le profonde paure e i sentimenti che albergano nella pellicola, soffocando i personaggi nell’oscurità di certe inquadrature e riflettendo i conflitti della loro natura umana. Una primigenia inclinazione all’Espressionismo che farà di ciò che li circonda, nei suoi confini esterni e interni (i paesaggi, le case), una leggera rappresentazione della loro anima distrutta. Manca, quindi, anche una sovraccarica decorazione della scenografia, con una propensione per l’allestimento di stanze più aderenti a quelle reali e per la scelta di veri luoghi all’aperto dall’aspetto poetico (un romanticismo di cui Murnau non potrà mai fare a meno) per scene idilliache e non.

  Così, usando la cinepresa come un microscopio, si parte da un dramma (basato sulla sceneggiatura della danese Harriet Bloch e di Carl Mayer) per giungere a un buio finale carico di isteria tipico di un’operetta lirica e che va incontro ai palati dell’alta borghesia del tempo.

  A riprova di questo, la recitazione di parte del cast è lievemente forzata, proprio come su un palcoscenico. In una dimensione muta, dove il corpo diventa parola, gli attori si agitano per mettere a nudo le profondità del loro dolore e il silente carico della parola non detta, a vantaggio della visione dello spettatore. Urlano, schioccano sguardi scintillanti, torcono le loro braccia e sentono tutto il peso di una doppia impotenza, ovvero la sensazione di avere scelto vite che li tengono in gabbia e l’impossibilità di comunicare il dolore che ne consegue.

  Rimangono, come graffi, gli archetipi di questo film.

  Lily è la prima. Una donna che si crede emancipata e che, con l’inganno, si sta inconsapevolmente preparando per la sua stessa caduta. Una caduta che vendicherà la ferita perpetrata alla potenza maschile di Eigil. La ballerina seduce il maturo medico ma, anche lo spettatore (a dimostrazione di questo, nelle scene di adescamento, rivolgerà il suo sguardo allo spettatore, fuori dai fotogrammi), ed è in questa sua ambiguità che incarnerà la menzogna, la dissimulazione, la bassezza di una donna che non sa essere borghese. Peccati troppo gravi, allora, per essere perdonati, se non con la morte.

  Abbiamo poi il pittore cieco, interpretato da Conrad Veidt, con quel volto che pare essere un teschio e quei vestiti che ricordano vagamente un abito sacerdotale, come a rappresentare l’impossibilità del desiderio ma, anche la morte. Una figura controllata e immobile che poi diventerà esagerata, liberandosi sul finale di tutta la sua follia e la sua malattia.

  Rimane invece sullo sfondo la debole Helene, il convenzionale mondo borghese, il dovere ma, anche la rigida tragedia che non può fare altro che aspettare, rinunciare o morire, portandosi dietro la simmetria di colpe del resto del cast e l’ultimo sorriso prima della parola fine.

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