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7/10

Il castello di Vogelod regia di Friedrich Wilhelm Murnau

Giallo
recensione di Fabio Secchi Frau

Un gruppo di nobili tedeschi si riuniscono in un castello per partecipare a una caccia ma, sono costretti a passare il loro tempo al chiuso a causa delle pessime condizioni atmosferiche. A sorpresa, al gruppo si aggiunge anche il Conte Johann Oetsch, che non era stato invitato e che è evitato da tutti perchè pare che sia il responsabile della morte del fratello, la cui vedova, ormai risposata, è presente. Ovviamente, l'arrivo inaspettato metterà tensione fra gli invitati.

   Un grande e poco sinistro castello per tutti gli invitati, una partita di caccia e il mal tempo.

  I personaggi di questa pellicola, a causa di questi tre fattori, sono costretti a passare del tempo insieme (loro malgrado) e a porsi tutti le medesime domande…

  Chi ha ucciso il conte Oetsch? Si tratta veramente di suo fratello? O è stato il nuovo marito della vedova? L’assassino ucciderà ancora? Come scoprirlo? Perché l’ha fatto?

  Se il vostro immaginario è stato solleticato da questi “gialli da camera chiusa”, allora Il castello di Vogelod è una pellicola che potrebbe piacervi, ammesso che possiate però sopportare il silenzio di un film muto!

  Tra tutti i titoli del grande regista tedesco Friedrich Wilhelm Murnau, questo è uno dei pochi che, fortunatamente, non è andato perduto e appartiene a quei filoni cinematografici che poi imbastiranno un vero e proprio sottogenere della pellicola “gialla”, sempre molto apprezzata dal pubblico (anche recente).

  Ma al di là della sua forma, Il castello di Vogelod, tratto dal romanzo omonimo di Rudolf Stratz, è una pellicola che ha in sé il potere di far credere allo spettatore che il confine fra il sospetto e la sicurezza non sia mai netto e che qualcosa o qualcuno sia sempre in grado di confonderli.

  E questo è il primo e unico punto di forza narrativo della pellicola.

  Per quanto riguarda l’estetica, se si riescono a superare le naturali ritrosie che possono nascere nello spettatore contemporaneo poco avvezzo alla visione di queste “primitive” (lasciatemi passare il termine) pellicole, si sarà ben felici, poi, di riconoscere tutte quelle che sono le particolarità di un regista tedesco che farà scuola.

  Prima di tutto una regia che è un occhio onnisciente, che riprende gli alberi e le montagne nell’insieme e che li contrappone a inquadrature claustrofobiche di interni, perché lo sguardo di Murnau si annida ovunque la sua pupilla indagatrice possa carpire i segreti delle sue storie. Mettendo a fuoco le espressioni di certe facce, si sfrutta al massimo l’uso dello spazio a livello psicologico, teso a delineare significati su ciò che sta succedendo ai personaggi dentro il maniero. E tutto questo nonostante una certa impostazione statica che, allora, era un dogma di fede per i cineasti del tempo.

  È in questo modo che l’orrore penetra dall’esterno e dall’interno, ma anche dal presente come dal passato (si fa largo uso di flashback).

  Le scenografie, a tal proposito, sono naturali, ed è invece più artificiale la luce, che sembra provenire da un passato lontano, rompendo la tranquillità dei personaggi e mettendoli in relazione gli uni con gli altri.

  Rimangono leggermente teatraleggianti le interpretazioni.

  Non è uno dei capolavori di questo regista ma, visti i pochi film rimasti a noi di Murnau, vale la pena ricordarlo, anche per alcune importanti scene, come quella dell’incubo orrorifico con una bestiale mano che penetra da una finestra per rapire uno dei personaggi (scena che poi sarà ripresa più e più volte da altri registi).

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