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R Recensione

8/10

Le donne e il desiderio regia di Tomasz Wasilewski

Drammatico
recensione di Leda Mariani

Polonia 1990. Sferzano i venti del cambiamento, ed è il primo anno dell'euforia della libertà, ma anche di una profonda incertezza per il futuro. Quattro donne di età diversa, apparentemente realizzate, cercano di cambiare vita e di esaudire i loro desideri. Agata è una giovane madre intrappolata in un matrimonio infelice, che si rifugia psicologicamente in un'altra impossibile relazione. Renata è un'insegnante avanti con gli anni, persa nell’idea di un imminente pensionamento, ed affascinata da Marzena, la sua giovane vicina di casa, solitaria ex regina di bellezza locale, che ha un marito che lavora in Germania. Iza, la sorella di Marzena, fa la preside, ed è innamorata del padre di un’allieva della sua scuola, che diventerà atroce vittima del suo egoismo. Ma questa non è solo una storia di amori: l’amore amaro, l’amore irraggiungibile e quello ossessivo mescolati in un potpourri di disagio esistenziale, è anche e soprattutto il racconto di uno smarrimento profondissimo, in cui il desiderio di benessere va di pari passo con quelli più intimi, attraversando di taglio le sfumature dell'animo femminile.

Con il suo terzo lavoro dietro alla macchina da presa, dopo aver raccontato l'universo femminile anche nel potente In the Bedroom, con Le donne e il desiderio Tomasz Wasilewski entra di diritto, a 36 anni, tra gli artisti che scelgono il punto di vista del “gentil sesso” per raccontare il mondo. Orso d’Argento per la Miglior Sceneggiatura alla 66esima Berlinale, il film, caratterizzato da un’impressionante violenza sommessa, è austero, malinconico, e dominato da una visività tagliente, enfatizzata dall’interessante e potente fotografia di Oleg Mutu, DoP rumeno che ha uno straordinario talento nel ritrarre esseri umani pervasi di sofferenza, che qui si fonde perfettamente con il concetto visivo ed emozionale del regista.

Un’opera estremamente violenta, tanto quanto potentemente espressiva, che punta a rappresentare la decadenza di un mondo, raccontando forme di innamoramento distruttivo ed impossibile, che si snodano in un ambiente spento, represso, claustrofobico, nel suo non concedere vie di scampo, per tutti. L’ostentazione della religione e della ritualità tipica delle piccole comunità diventa in questa storia evidenza dell’ipocrisia, nel suo svelarsi come entità sterile e priva di senso, che non conduce alla salvezza e che come tutto il resto, non lascia vie d’uscita. Il film è violento nella rappresentazione degli spazi, nella ritmica ossessiva e dilatata, nel suo indugiare in maniera ostinata su primi piani intensi di attori tutti molto bravi, che interpretano personaggi segnati dal tempo, dalla disperazione e dalla brutalità inevitabile della vita. E se, come recita il prete all’inizio, la salvezza risiede nell’amore, allora nell’amore inespresso, non partecipato e non condivisibile, in quello insomma impossibile, sta proprio l’inattuabilità della salvezza.

Le riprese, quasi tutte in Steadycam, o a spalla, amplificano con la fluttuazione e la prossimità ai personaggi un senso di oppressione e di ansia claustrofobica. I toni della bellissima ed elegante fotografia formalista sono freddi, spenti, come il luogo nel quale vivono i personaggi, sia fisico che mentale. Il mono-tono ricopre tutto, come una neve siderale: scenografie, atmosfere, architetture, costumi e oggetti di una spenta Polonia socialista, che restituiscono un forte senso di miseria. Quella dell’umanità più opportunista. All’inizio del film si festeggia per un nuovo lavoro: ma alla fine, come lo si è ottenuto?! A quale prezzo? Vendendosi… cedendo alla miseria dell’ego, emblema ideale del drammatico decadimento di una grande società. Una melanconia tipicamente russa restituisce allo spettatore un forte senso di inevitabilità e quell’impressione di non poter sfuggire alla natura delle cose e alla violenza intrinseca dell’esistenza su questa terra.

Le gomme da masticare impacchettate, insieme agli altri doni, sotto all'albero di Natale. Una pubblicità del Bounty passata su un canale tedesco; un uomo lontano che fa capolino saltuariamente da un vhs nel televisore. Il comunismo è caduto nella Polonia di fine anni ’80, ed il paese sembra dominato dalle donne, alle prese con un mondo tutto nuovo, inesplorato, denso di promesse di libertà. Un universo da costruire e ancora spaventosamente vuoto. L’ambiente è dominato, per non dire piegato, da un senso di smarrimento profondissimo. Come ha affermato il regista: <<Quando allevi un animale in gabbia non puoi aspettarti che esca se gli apri la porta: per lui ormai quella gabbia è diventata casa>>. Il penetrante contesto storico-sociale si percepisce nettamente, pur finendo con il restare sullo sfondo, e non è sufficiente parlare della caduta del Muro o intitolare una scuola a Solidarnosc, per pensare di avere offerto una ricostruzione storica che vada al di là dell'occasionale, ma lo stato d’animo collettivo, la psicosi sociale, si vede, si sente… ed è una cosa molto difficile da raccontare. Un profondo e a tratti spaventoso egoismo contraddistingue tutti i personaggi femminili, in bilico tra sopravvivenza e soddisfazione dei propri desideri, ad ogni costo. Questo incentrare l’intero film quasi esclusivamente sulle donne, come raccontato anche da Lukasz Maciejewski, critico cinematografico e teatrale polacco: <<è una novità sensazionale in Polonia, considerando che finora nel nostro cinema i ruoli principali sono stati sempre affidati agli uomini e il punto di vista espresso è sempre stato quello maschile>>.

Molto interessante anche la struttura narrativa non lineare, che intreccia frammenti di vita delle tre protagoniste sparpagliandoli avanti e indietro nel tempo, in maniera randomica, ma comunque chiara. Magdalena Cielecka, nel ruolo, di Iza, si dimostra capace di incarnare la perversione, abbinata ad un profondo senso di alienazione e di abbandono: è una donna completamente schiacciata dalla paura, che si nasconde dietro ad un’apparente fiducia in sé stessa. Julia Kijowska, nel ruolo di Agata, è un personaggio che sembra uscito dalla penna di Tennessee Williams o di Elfriede Jelinek: una giovane donna piuttosto ordinaria, che ad un tratto attraversa una crisi d’identità. Dorota Kolak, nel ruolo di Renata, esprime tutta la sua intensa esperienza teatrale. Marzena, interpretata da Marta Nieradkiewicz, reginetta di bellezza locale, è invece una sorta di guida turistica femminista che ci accompagna attraverso vari capitoli di questo racconto cinematografico, con un’interpretazione molto vera, che diventa in pratica incarnazione del personaggio. Ma tutti i caratteri di Le donne e il desiderio, anche nei ruoli secondari e maschili, sorprendono per la loro autenticità, la loro psicologia sagacemente osservata e l’intensità interiore.

Un film davvero molto difficile da far digerire ad un pubblico di massa, ma che ha dalla sua tutto il coraggio della rappresentazione della violenza sociale umana, anche in amore.

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