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7/10

The Company Men regia di John Wells

Drammatico
recensione di Maurizio Pessione

A seguito della crisi economica globale iniziata nel 2008 e non ancora conclusa oggi molte aziende sono fallite ed altre hanno effettuato tagli di personale e spin-off di interi rami d’azienda. Tante persone si sono trovate improvvisamente senza un posto di lavoro e con scarse possibilità di ritrovarlo. Nonostante ciò il Chairman della multinazione GTX ha approfittato del momento per arricchirsi ulteriormente, ai danni dei suoi dipendenti. Il film racconta la storia di alcuni suoi managers i quali, al di là dei loro meriti, vengono licenziati e sono costretti ad un difficile e lungo processo di ricollocamento sociale, familiare e personale per superare lo choc della rovinosa caduta dopo aver ritenuto per molto tempo di essere invulnerabili.

In America sacrifichiamo le nostre vite per il nostro lavoro. È tempo di riprendercele indietro.’ La bella locandina del raggelante film di John Wells che riporta nell’intestazione questa affermazione, mostrando due impiegati, un uomo ed una donna, che camminano in equilibrio su un filo sospeso nel vuoto, sotto lo sguardo curioso e perplesso dei protagonisti che ne seguono il rischioso percorso, sintetizza il tema e la trama di quest’opera che è quanto mai di attualità, ahimè. La frase di per sè può suonare persino un pò superata ed illusoria rispetto alla dinamica della realtà che si è sviluppata nel pur breve spazio di tempo fra la realizzazione del film ed il presente.

The Company Men si può definire come un film horror, con mostri e serial killers di natura diversa da come siamo abituati a riconoscerli, ma decisamente più realistici e sconcertanti. La violenza e la paura infatti non si esprimono solo attraverso fatti di sangue, coltelli grondanti o morsi di vampiri sul collo, ma esistono metodi ancora più efficaci e più subdoli per metterla in atto. Il film del cinquantacinquenne regista e produttore americano racconta come, in una società dominata da regole economiche ciniche e senza scrupoli sia possibile trasformare, di punto in bianco e partendo dal mondo del lavoro per riflettersi quindi a cascata sulle famiglie e l’intero sostrato sociale, la sicurezza ed il successo delle persone in una condizione di assoluta precarietà dai contorni drammatici ed i toni dell’incubo. 

Il Chairman della GTX, la Company al centro della storia (Craig T. Nelson), ad un certo punto, per giustificare la decisione di tagliare alcuni rami dell’azienda che dirige e con essi un numero cospicuo di dipendenti, alcuni dei quali fedeli di lunga data, dice ‘…non mi sento responsabile, oramai lavoriamo per gli azionisti!’. Se una volta le imprese fondavano il loro successo e la loro capacità gestionale su una strategia fondata su ciò che producevano e quindi sui ricavi che erano in grado di realizzare in base alla competitività sul mercato, secondo la tesi dell’autore, ora al centro del processo economico non c’è più il prodotto ma gli azionisti. L’obiettivo principale quindi non è più soltanto quello di generare profitti, attraverso la vendita delle merci, siano esse risorse di base oppure alta tecnologia, da dividere quindi con chi ha contribuito a realizzarli, ma anche e soprattutto far crescere a tutti i costi il valore dell’azione e dei dividendi da distribuire ai famelici azionisti, persone fisiche ma esterne ed evanescenti, per la gran parte, alla stessa azienda.

In un tale ciclo distorto e vizioso accade sempre più spesso quindi che, indipendentemente dai risultati positivi derivanti dall’equazione ‘prodotto venduto=ricavi ottenuti’, l’ascesa di un’azione possa dipendere anche da fattori indotti come, ad esempio, eliminare intere divisioni d’azienda ritenute non abbastanza remunerative. In certi casi la causa non è da ricercarsi nei mancati guadagni o ancora peggio nelle passività, ma nei profitti considerati inferiori alle attese e non abbastanza remunerativi quindi, ad esempio sotto quella fatidica soglia che gli americani definiscono ‘double digit’, cioè un  valore almeno uguale al  10%. Ridurre il personale e quindi i costi relativi in tali eventualità va a tutto vantaggio degli utili da iscrivere a bilancio ed a dare un segnale significativo agli azionisti ed alle loro aspettative di lucro.

Proprio quello che accade in The Company Men nel quale Bobby Walker (Ben Affleck) è un manager giovane, rampante, sicuro, baldanzoso ed ambizioso che però si ritrova improvvisamente fuori dall’azienda per la quale si sbatte ‘day by day’ con ambizioni crescenti. Per sua sfortuna, i vertici dell’azienda hanno deciso di tagliare proprio il settore al quale egli appartiene per dare, appunto, una indicazione positiva ai mercati, in modo che l’azione possa beneficiarne interrompendo un trend negativo. Il che, tradotto per i cosiddetti ‘esuberi’ come lui, spesso significa come primo impatto passare da una situazione di invidiabile ed apparente successo e sicurezza al dramma psicologico, aprendo una profonda ferita che colpisce direttamente l’orgoglio e si riflette nell’umiliazione di fronte ai propri familiari, ai vicini di casa, agli amici, ai parenti ed ai conoscenti. Oltre al fatto ancora più grave di trovarsi costretti improvvisamente a cercare non facili alternative che spesso si traducono in un radicale ridimensionamento personale e familiare del proprio tenore di vita. In una società nella quale apparire è molto più importante che essere, è evidente il contraccolpo che genera a livello sociale una condizione del genere. La prima cosa infatti di cui si preoccupa Bobby tornando a casa e comunicando alla moglie il suo licenziamento, è che venga nascosto ai vicini ed ai parenti. 

Gli effetti della crisi economica iniziata nel 2008 sono stati devastanti, in particolare per molte aziende che sono saltate o che hanno dovuto effettuare pesanti riorganizzazioni, le cui prime vittime sono state proprio i dipendenti. Il film inizia proprio dalla voce dello speaker di una TV che sottolinea, già sui titoli di testa, le ingenti perdite di Wall Street a seguito dello scoppio della cosiddetta ‘bolla economica’, come fosse l’annuncio dell’arrivo imminente di un uragano. La crisi dei mercati degli ultimi mesi testimonia che l’uscita da questo tunnel è ancora lontana dall’essere raggiunta e quindi appare evidente l’attualità di quest’opera nonostante sia stata realizzata l’anno scorso. ‘…Il mondo non si è fermato…’ dopo questi accadimenti, sostiene ad un certo punto un altro manager della stessa azienda, Phil Woodward (Chris Cooper), tagliato solo qualche giorno più tardi rispetto a Bobby, quando invece sperava di averla scampata. L’improvvisa consapevolezza di dover cambiare radicalmente le abitudini di vita, sia a livello personale che familiare, ingigantita dallo smacco subito e la perdita di ogni certezza, diventa per lui un ostacolo insormontabile che richiederebbe invece, come minimo, un lungo e difficile processo di adattamento.

The Company Men descrive con buona efficacia le conseguenze a livello personale e sociale dell’attuale crisi economica e l’illusione che ha generato in molti, manager inclusi, di aver conquistato, attraverso una rincorsa imperiosa e senza fine, un piedistallo di sicurezza e benessere dal quale ritenevano, a torto, che non fosse contemplata l’ipotesi di poter essere scalzati. Allo stesso tempo, ubriacati dall’elevato ed invidiabile status sociale e tenore di vita raggiunti, molti di essi sono diventati indifferenti alle disgrazie altrui, sino a prenderne coscienza vivendole sulla loro pelle. Quando Bobby sta sgomberando l’ufficio, poco dopo aver ricevuto la notizia del licenziamento, la sua segretaria gli chiede cosa deve fare avendo subito anch’essa analoga sorte, egli le risponde che non gliene frega niente, presumendo ancora e comunque che i loro destini e ruoli non si possono accomunare neppure di fronte allo stesso dramma. Si tratta ovviamente di una visione parziale perché il film considera per larghi tratti soltanto l’ottica di un gruppo di dirigenti e di manager d’alto livello caduti in disgrazia, trascurando completamente quindi la realtà ben peggiore del personale meno qualificato che da loro stessi dipende ed ha fatto la stessa fine.

Al di là delle problematiche scatenate dalla profonda crisi attuale, l’opera di John Wells vuole sottolineare la crisi di una società e di una cultura nettamente sbilanciate verso l’egoismo di pochi che si arricchiscono a dismisura, sfruttando alla stregua degli avvoltoi persino le opportunità apparentemente più negative per girarle a loro favore, senza badare minimamente alle conseguenze sul piano umano e sociale che determinate decisioni provocano.

In una cornice del genere le esigenze di sviluppo e riposizionamento di un’azienda che non nasce certamente come istituto di beneficienza e le conseguenze e storture che una società così cinica e spietata portano con sè, diventano una spirale perversa dagli effetti rovinosi. Chi non regge a lungo la pressione e l’umiliazione, soprattutto quando capisce che in tali congiunture è difficile se non impossibile ricollocarsi e ripartire senza pagare pesantemente dazio, arriva a compiere gesti estremi, come Phil. Esemplificativi a tal proposito sono i colloqui preliminari che Bobby e Phil sostengono presso la società di ricollocamento. La loro reazione stizzita ed incredula davanti all’addetta che deve considerare freddamente e realisticamente le loro posizioni descrive lo scollamento fra quello che essi ritengono ancora di essere, rispetto a quello che sono invece diventati, pur senza rendersene ancora conto.

Ovviamente in un contesto del genere c’è anche chi si arricchisce ancora di più, esponenzialmente e chi invece diventa sempre più povero, sino a toccare il fondo, aumentando a dismisura la forbice fra i due estremi. C’è un dialogo significativo ad un certo punto fra il Chairman (A) ed il suo ex socio (B), licenziato a sua volta per non aver condiviso con lui il programma dei tagli operati nella divisione di sua competenza.  “Abbiamo costruito qualcosa qui, insieme. Insieme non era solo tu o solo io, eravamo tutti” (B). ‘Venivano pagati ogni settimana, prendevano soldi se si ammalavano, rimborsi di ogni genere, qui facciamo affari, non beneficenza!’(A). “Hai guadagnato 22 milioni l’anno scorso, gli altri hanno perso le case, le mogli, il rispetto dei loro figli”(B). ‘Era quello che richiedeva il mercato per sopravvivere’(A). “Ma, andiamo…”(B).

Il film di John Wells mette il dito nella piaga di un’economia di mercato la quale, pur fra scompensi vari, si rivela capace di generare benessere quando il ciclo economico è positivo ma che può trasformarsi in un vero e proprio boomerang in negativo quando invece s’inverte pesantemente la rotta e scatta una temuta fase di recessione, soprattutto se è di tipo strutturale come quella che purtroppo stiamo ancora subendo. The Company Men è ambientato negli Stati Uniti, dove spesso questi aspetti sociali sono esasperati, ma quello che racconta il film vale in generale nella gran parte delle aziende private anche di casa nostra, soprattutto le multinazionali. A fronte di un welfare meno tutelante in USA rispetto al vecchio continente, balza anche all’occhio in quest’opera la prerogativa tipicamente americana di non perseguire la cultura del risparmio. Le famiglie spesso s’indebitano sino al collo pur di raggiungere il tenore di vita più alto possibile, esponendosi fortemente però ai rischi di una repentina esigenza di rientrare dai debiti. Un colpo di vento più forte del previsto e, come nel caso di Bobby,  dalla villa, la piscina, la Porsche, il golf club, i ristoranti di lusso si passa in breve tempo alla soglia della povertà. Egli si ritrova infatti con tre mesi di stipendio ‘generosamente’ messi a disposizione dalla sua azienda oltre ad un corso di recupero nelle società di ricollocamento degli ‘esuberi’ sul mercato.

La sua prima reazione, dopo lo sconcerto e la rabbia, è quella di non considerare la nuova realtà e quindi di comportarsi, negli atteggiamenti ma anche nelle abitudini quotidiane come se non fosse accaduto nulla, oppure si trattasse di un evento transitorio facilmente superabile non appena qualche altra società si renderà conto di quale succosa opportunità ha davanti a sé assumendolo. Il mondo del lavoro però, in tali contesti di profonda crisi, non è in grado di coprire le voragini occupazionali, neppure per coloro che hanno curriculum di tutto rispetto per i cosiddetti ‘cacciatori di teste’ ed allora la discesa diventa sempre più ripida e la caduta ancora più rovinosa di fronte alle spese correnti che non si possono evitare, come il mutuo della banca, i ratei delle auto di lusso, l’iscrizione alle migliori scuole per i figli e via di questo passo. Bobby ha una moglie comprensiva, la graziosa e determinata Maggie (Rosemarie DeWitt) ed è grazie a lei, alla sua pazienza e senso della famiglia se, nonostante la forzata rinuncia a buona parte del loro status sociale (la villa, la Porsche, il Golf Club, appunto…) restano comunque uniti e solidali.

Da questo punto di vista The Company Men sembra non volersi accanire riguardo gli eventuali scenari collaterali provocati dal licenziamento di Bobby, come se volesse lanciare un messaggio di speranza, di solidarietà e di umanità che parte proprio dal nucleo familiare. Il ruolo secondario nell’ambito della trama, ma decisivo per scuotere Bobby dall’apatia nella quale era sprofondato, da parte di Jack (Kevin Costner), il quale gli offre un lavoro da carpentiere, pur umile che sia rispetto alla posizione precedente, ma almeno utile a garantire il minimo indispensabile introito familiare per restare a galla in attesa di una migliore occasione, è un’ulteriore testimonianza ed inciso positivo in una vicenda che, almeno nel film, assume sviluppi che presentano qualche squarcio di ottimismo.  Alla stessa stregua il personaggio di Gene (Tommy Lee Jones) sembra voler dimostrare che fra tanti squali che operano nell’ambito dei massimi dirigenti (CIO) delle grandi multinazionali, c’è ancora qualcuno disposto a pagare di tasca propria pur di non perdere la sua dignità, il rispetto e la riconoscenza verso i collaboratori che un tempo, come dice lui stesso, ‘…facevano qualcosa che alla fine del loro lavoro potevano vedere, apprezzare, toccare.’ mentre adesso troppo spesso chi prende decisioni strategiche finisce per perdere contatto con la realtà delle persone intorno, condizionato solo dai numeri finanziari. Anche in questo caso si tratta di una visione ottimistica, utile soltanto agli autori del film per chiudere il cerchio verso un finale meno amaro i cui riscontri nella realtà però sono tutti da verificare. La sua stessa amante, l’affascinante Sally (Maria Bello), nel ruolo della HR responsabile appunto delle risorse umane, in una delle ultime scene quando va a trovare Gene che sta impiegando gli ingenti ricavi delle sue stock options per mettere in piedi una nuova azienda che dia sostegno e speranza ad alcuni dei suoi collaboratori licenziati in precedenza, gli confessa con mestizia ‘Sto seduta alla mia scrivania a decidere chi saranno i prossimi da mandare a casa. Credevo di poter fare di più dall’interno, salvare qualcuno che proprio non lo meritava, ma non me l’hanno mai permesso. Tienimi presente come possibile associata. Forse mi potrebbe servire un lavoro…’. Il che contiene pure un doppio senso, lasciando sottilmente intendere che quello che sta svolgendo nel frattempo non si possa considerare tale.

Ancora più duri ed amari sull’argomento dell’ambito lavorativo, visto come una specie di giungla nella quale sbranare ed essere a propria volta sbranati è la regola quotidiana, sono stati in precedenza Americani di James Foley, con uno straordinario Jack Lemmon in versione drammatica e, più recentemente, Tra Le Nuvole di Ivan Reitman con George Clooney nella parte di un ‘tagliatore di teste’ aziendale che a seguito di una delusione sentimentale con una collega si ritrova a riconsiderare anche se stesso ed il suo impietoso ruolo.

Gli interpreti sono all’altezza, ad iniziare da Ben Affleck che duetta senza patemi reverenziali con un sornione e sbrigativo Kevin Kostner, il quale nel momento più difficile gli dà contemporaneamente una mano ed una lezione di umiltà. Se Phil Woodward e Craig T. Nelson incarnano adeguatamente e rispettivamente la vittima ed il suo carnefice nel processo di smantellamento aziendale, l’unico che appare sotto tono è invece Tommy Lee Jones, il cui personaggio dell’imprenditore virtuoso Gene avrebbe richiesto un interprete più raffinato dal punto di vista espressivo, oltrechè un’appropriato ‘fisique du role’.

The Company Men di John Wells non è un’opera perfetta, come si evince da quanto scritto sin qui, ma merita considerazione per aver osato affrontare argomenti scomodi e, se vogliamo, anche impopolari per chi al cinema mal volentieri sopporta di farsi ripetere la dura realtà che vive fuori dalla sala cinematografica e le ansie che questa crisi lunghissima ancora sta generando. Chissà se quest’opera sarebbe piaciuta ad un attore notoriamente impegnato come Gian Maria Volontè che usava a volte casualmente il nome d’arte Johnny Wells.  

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