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7/10

Le Quattro Volte regia di Michelangelo Frammartino

Documentario
recensione di Alessandro Grasso

Un vecchio pastore calabrese, trascorre le giornate al pascolo con i suoi animali. E' affetto da una tosse persistente che cura con gli unici elementi che hanno fatto parte della sua vita: la terra, l'acqua. Realtà e finzione si mescolano per raccontare il ciclo vitale uomo-natura all'interno di una delle poche realtà italiane rimaste fuori dal tempo.

Le quattro volte di Michelangelo Frammartino, film che ha già avuto un trascorso di successo nel 2010 a Cannes, è stato ripresentato durante la 66° edizione di Locarno come portavoce della casa di produzione Ventura Film, vincitrice del Premio Ticino Cinema. La casa di produzione, prima e dopo la proiezione del film, ha voluto sottolineare gli sforzi fatti per sostenere un film sperimentale come quello in questione e ha tracciato le linee per i suoi progetti futuri: un'altro film dello stesso regista (il quale sta effettuando in questo periodo i sopralluoghi) e l'imminente lungometraggio di Emma Dante. I rappresentanti della Ventura Film, hanno inoltre affermato di voler proseguire a produrre pellicole ancorate al territorio e la scelta di proiettare Le quattro volte a Locarno spiega chiaramente la direzione presa. Da una decina di anni a questa parte il cinema italiano sta rivolgendo nuovamente l'attenzione alle piccole realtà rurali. Un film che ha segnato questo nuova rinascita è sicuramente Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti. Un riferimento cardine del passato sono i documentari siciliani di Vittorio De Seta.

Il film di Frammartino è spaccato in due parti. La prima racconta il legame tra un pastore, i suoi animali e la terra in cui vive. La sua morte viene rappresentata attraverso una rara naturalezza d'immagine: il pastore è a letto, tossisce, apre gli occhi verso le pecore che sono con lui nella fatiscente camera da letto, esala l'ultimo respiro, si immobilizza. La sua fine non ferma la pellicola ma diventa un'occasione di rinascita per il piccolo paese. Una rinascita mostrata esplicitamente attraverso un'opposizione di scene degna di citazione: l'inquadratura fissa che mostra la chiusura del loculo in cui riposa l'anziano pastore, lo schermo si scurisce fino a diventare completamente nero, di colpo appare una delle sue capre che partorisce. Ecco che la spaccatura si è realizata e il film può proseguire con le immagini di una processione che sbiaditamente ricorda Bergman. Il gruppo di persone passa di fronte alla casa del pastore ormai svuotata dei suoi animali, ma lì c'è ancora un cane che si mette ad abbaiare, quasi a voler gridare "il mio padrone è vivo". Rinasce anche la natura, prima innevata e poi nuovamente asciugata. Di questo film ciò che colpisce maggiormente è la sua (non) colonna sonora: la tosse dell'anziano che accompagna le immagini fino alla sua morte. Una tosse persistente, quasi armoniosa, faticosa come a volte è la vita. Non basta a placarla il miscuglio di terra che una donna gli prepara sopra un foglio di giornale. Una volta terminato, del film rimane l'idea piacevole di un'onda sonora che si abbassa e si alza quattro volte.

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