Stoker regia di Park Chan Wook
DrammaticoDopo la morte del padre, la giovane India Stoker si ritrova a vivere con l'emotivamente instabile madre e un enigmatico zio, appena arrivato in casa. Nonostante nutra dei sospetti sulle sue reali motivazioni, la ragazza si ritrova inevitabilmente attratta dallo zio.
E alla fine Park Chan Wook si è aggiunto alla lista dei registi asiatici sbarcati ad Hollywood. Ma era da aspettarselo. Tra tutti quelli della sua generazione, coreani in particolare, è sempre stato un regista dal linguaggio estremamente internazionale, oltre che dalle continue e spropositate ambizioni tematiche e coreografiche. Tutto questo sempre condito con il più alto tasso di sadismo immaginabile, vero marchio di fabbrica di un certo cinema di genere asiatico, come ci hanno ricordato anche recentemente i vari Miike, Kitano e Ki Duk. Quello che succedeva in numerosi esperimenti mal riusciti (o riusciti a metà) di esportazione del cinema orientale in occidente, ad esempio in My Blueberry Nights di Wong Kar Wai o nell'ultimo The Last Stand di Kim Ji-Woon, era di assistere ad un edulcorazione dei temi e del linguaggio utilizzati normalmente nella propria patria, a favore di un appiattimento ed annacquamento stilistico che rispondesse più ai canoni del cinema occidentale e, in particolare, di quello americano. In questo senso Stoker di Park Chan Wook si presenta come una violenta opera di rottura. Al contrario dell'appiattimento, qui si assiste ad un vero atto di ribaltamento del convenzionale e, soprattutto, dei canoni del cinema occidentale. La parte interessante però è soprattutto il processo attraverso il quale è resa possibile questa sovversione alle regole. La prima parte è spiazzante. La frequente presenza di voce off inserita in un contesto da subito familiare alla vista, soprattutto per la presenza di numerosi volti noti, accompagna spesso un montaggio talvolta allucinato, talvolta schizoide, e ricco di suggestioni visive. Come ci aveva abituati con Old Boy, Lady Vendetta o Thirst, come al solito Chan Wook esagera e non tiene a freno le proprie ambizioni registiche. Anche se non vedrete un piano sequenza in cui la macchina da presa passa attraverso il manico di una teiera (Three Extremes, tra l'altro molti ancora si chiedono come ci sia passata), vi accorgerete subito degli incredibili movimenti di macchina (molte ridondanze) e dell'abituale attrazione per le aggiunte digitali (ad esempio il ragno) che in un certo senso aiutano il film ad estraniarsi dalla vera realtà giustificando di fatto molti dei passaggi più surreali e scenografici su cui si regge la struttura stessa dell'intreccio narrativo. Quello che però risulta evidente fin da subito è la precisa intenzione di insinuarsi lentamente dentro un impianto narrativo ed un'atmosfera che abbiano dei forti punti di attacco con l'immaginario horror/thriller americano, così da rendere ancora più sconvolgente una comunque prevedibile deriva sanguinaria "alla coreana". Da questo punto di vista la scelta degli attori è esemplare. Anche se Nicole Kidman, ampiamente collaudata, svolge egregiamente il proprio ruolo tra stereotipi e senso di déjà vu, la migliore è Mia Wasikowska. Il suo è il tipico personaggio femminile che Chan Wook adora mettere in scena, e di sicuro i cultori non faranno fatica ad accostarlo alla Lee Yeong-ae di Lady Vendetta. E dopo aver giocato abilmente nella prima ora con i canoni e il linguaggio di un certo cinema occidentale Chan Wook si è divertito a spaccare tutto. Quasi a sorpresa, di sicuro con irruenza, il suo lato più prettamente poetico unito alla sua innegabile natura perversa si manifesta con coraggio e voglia di turbare. Si spinge al limite, anche divertendosi, pur non raggiungendo i livelli di pesantezza emotiva dei precedenti. Stoker è comunque straziante, turbolento, aggressivo nel processo di rivelazione della verità, anche e soprattutto grazie ad una confezione che tra fotografia, montaggio e sound design, riesce a rendere il film un'esperienza visiva e sonora imprescindibile e indimenticabile. Per il resto si tratta di una sceneggiatura compatta, scritta dal noto attore Wentworth Miller (Prison Break), anche se priva di reale interesse se scollegata dall'interpretazione/manipolazione effettuata da Chan Wook nel trasporla sullo schermo. Ed è infatti proprio a partire da questa manipolazione della materia esistente che si verifica un fatto strano, che fa riflettere. La sensazione che si ha è che non vi sarebbero stati registi americani capaci di realizzare il film in questo modo. E quello che subito viene da chiedersi è: perchè tutta questa attrazione per Hollywood quando in Corea l'industria del cinema si muove anni luce avanti a gran parte del cinema americano? E di fronte ad un artista/mestierante del calibro di Chan Wook è proprio questa categoria di cinema ad uscire sconfitta, vuota e priva di personalità. Di fatto Stoker è un'opera folle, geniale, sregolata pur essendo al tempo stesso elegante, sontuosa e formalmente impeccabile. Francamente ci si chiede se valga veramente la pena per autori come Chan Wook di rinunciare alla propria totale libertà artistica in cerca di un riconoscimento in un'industria che ormai ha più raramente a che fare con l'arte e sempre di più con la società del consumo. Insomma, a costo di suonare poco ortodosso, caro Park, il prossimo vedi di farlo a casa tua.
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