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5/10

Dynamite Man regia di Hyuk-won Jeong

Gangster
recensione di Alessandro Giovannini

Due fratelli lavorano per un piccolo gangster, all'insaputa del quale progettano però di abbandonare la vita criminale e fuggire in Giappone per ricominciare da zero. Quando lo scopre, il capo nno ci pensa due volte: li fa pestare a sangue e ordina di bruciarli. L'esecuzioen non riesce a causa di un ripensamento di uno dei suoi uomini, che risarmia la vita ai due fratelli, il minore dei quali ridotto ormai in fin di vita e prossimo al decesso. Al maggiore non resta altro che cercare vendetta a suon di dinamite.

Ennesimo revenge movie, ultimo nato di un filone che diparte dalla sempre più seminale trilogia di Chan-wook Park, ormai entrata nell'immaginario cinematografico collettivo. Con un budget che deduco essere stato irrisorio, Jeong, uscito da pochi anni dalla Korea National University of Arts e già regista di Gravity (2012 - no, non quello americano del 2013!) e di un altro paio di lavori giovanili (Genre Film, 2011; 3 Swindlers, 2010) ha voluto cavare da un soggetto comune a tanti film gangster un prodotto ibrido, a metà fra lo yakuza-noir maliconico alla Takeshi Kitano ed il polar mortifero alla Melville, ma senza l'originalità del primo e la portata filosofica del secondo. A livello stilistico il film gioca bene le sue poche carte: puntando spesso sulle riprese fisse e su location esterne di scheletri industriali e periferie disabitate si punta a confezionare paesaggi che siano anche paesaggi interiori; infilando a metà film un poderoso scoglio narrativo costituito da 20 minuti di pianosequenza a camera fissa (sono in effetti due pianisequenza montati di seguito con un raccordo sull'asse che da un totale passa ad un campo medio della stessa scena) si assicura di rimanere impresso nella memoria dello spettatore (nel bene e nel male!) e di vivacizzare il dibattito critico in sede di festival (il film è stato presentato al 18esimo festival di Busan, una delle principali rassegne cinematografiche asiatiche).

I demeriti sono semmai a livello sostanziale: non c'è nulla di nuovo o interessante dietro questa cornice arty; la vicenda come detto è quanto di più già visto in qualunque yakuza movie alla Takashi Miike e non solo; i limiti di budget esigono l'ellissi di molti momenti chiave lasciati all'immaginazione spettatoriale, e quando si cimenta nella messinscena di un'esplosione (malgrado il titolo, se ne vede solo una) palesa la povertà tecnica degli effetti speciali. Sebbene il montaggio faccia il possibile, non riesce a dissimulare la disarmante piattezza di una sceneggiatura latitante di idee creative, incatenata a clichè del genere; le lunghe scene dialogiche che avrebbero potuto offrire un contenuto interessante non decollano mai in interessanti spunti di riflessione, restando inchiodate anche in questo caso in chiacchiere molto generiche e già sentite su vita, morte, vendetta, riscatto, colpa. Il commento musicale minimalista è così poco influente e presente da risultare superfluo.

Qualche idea registica interessante c'è (ad esempio il far recitare uno dei due fratelli quasi unicamente nell'involucro di bende e garze in cui si trova dopo il pestaggio, una condizione che può richiamare alla mente il soldato di E Johnny prese il fucile), e spero che Jeong metterà in futuro le sue buone intuizioni al servizio di concept più originali.

 

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