Mr. Vendetta regia di Chan-wook Park
DrammaticoPer salvare la sorella da una grave malattia, l'operaio sordomuto Ryu si rivolge ad una banda di trafficanti d'organi. Truffato a sua volta, organizza insieme alla compagna Yeong-mi il rapimento della figlia del suo ex-datore di lavoro. Ma qualcosa va storto e il padre della bambina si mette sulle tracce dei due rapitori per vendicarsi. Sarà un bagno di sangue.
A ormai dieci anni dalla sua realizzazione, Mr. Vendetta di Chan-wook Park - capitolo inaugurale dell'omonima trilogia - non perde la sua attualità, né tanto meno la sua carica innovativa.
Forte di un realismo allucinato e straziante, e in parte ancora lontano dalle atmosfere grottescamente fumettistiche delle pellicole successive, il film di Park mette sul piatto della bilancia i topoi minuziosamente analizzati all'interno della saga: primo fra tutti il dissidio tra colpa e peccato, risultato della corruzione di una società bestiale e ferina, regredita allo stato di natura e dominata dalla legge del più forte (o del più furbo).
Chi ha i soldi può togliersi ogni sfizio, persino quello di sopravvivere, chi invece, come Ryu, non ne ha, deve arrangiarsi come può: la criminalità latente, incubata dalla forza gelida della disperazione, si amplifica fino al parossismo, conducendo gli innocenti ad atti inconsulti carichi di conseguenze nefaste.
Rinchiuso nella cella ovattata della sua sordità (dunque prigioniero, a suo modo, come gli "epigoni" Dae-su e Geum-ja), Ryu affida a voci altrui l'enunciazione del proprio dolore - è insieme straordinaria e lacerante la sequenza con cui si apre il film - arrivando infine a privarsi di un pezzo di sé pur di mantenere le promesse fatte.
Ma il mondo è crudele e spietato, specialmente con chi non lo merita, e si rivolta contro chi, con inesperienza, cerca di fregarlo. Park descrive con affilata ferocia un universo di sevizie taciute, rese silenti da una condizione di disabilità ma anche, e soprattutto, dall'omertà sociale, che copre con la maschera ipocrita della cortesia i torti appena compiuti: licenziare si deve, ma sempre col sorriso stampato in faccia e la mano tesa in una stretta compensatoria.
Il silenzio è un sovrano soffocante, così assoluto da rimbombare negli spazi vuoti del corpo e della mente: la totale assenza di colonna sonora - al di fuori di quella "naturale" e diegetica - unita all'amplificazione inverosimile dei rumori e all'uso di didascalie esplicative del linguaggio dei segni, ha il compito di dare forma alla condizione di Ryu, escluso sì dall'insopportabile invadenza dell'inquinamento acustico ma incapace di percepire il grido d'aiuto di chi lo circonda.
E' così che Park può inscenare l'orrore nella duplice prospettiva tipica del suo cinema - il surreale e il disturbante - facendo dell'isolamento di Ryu il suo veicolo d'espressione. Ed è così che un gruppo di studenti annoiati e infoiati può masturbarsi stimolato dai gemiti della sofferenza e una bambina morire di una morte assurda e ingiustificata, sulla quale l'occhio della macchina da presa indugia infine con tremenda e pur lieve insistenza, incurante del tabù in essa racchiuso.
Park - che pure si rivela profondo estimatore del principio tragico (greco) della morte oscena (ob-scaena) - adotta un comportamento ambiguo nei confronti dell'orrore innominabile. La sua predilezione per ciò che sta all'esterno del quadro rinvia ad un fuori campo che, per Deleuze, è testimone di una presenza inquietante, un "Altrove più radicale, fuori dallo spazio e dal tempo omogenei", collocato piuttosto nell'intersezione tra paura e tormento. Una coperta sudicia gettata sul corpo straziato nasconde la violenza più cruda ma le urla disumane e il suono di ossa e carne sventrate dal bisturi perforano i timpani e il cervello, suggerendo agli occhi ciò che non possono vedere.
L'esame autoptico delle umane aberrazioni si compie sul tavolo operatorio di un cinema che gioca al massacro con i sentimenti dei suoi personaggi - e, attraverso di essi, dei suoi spettatori: un uomo si dispera e poi sbadiglia, posto al cospetto del medesimo, raccapricciante, spettacolo, e la grottesca estetica dell'orrore promossa da Park è in grado di generare uno spasmo involontario troppo simile ad un sorriso per non inquietare chi lo produce. Sympathy for Mr. Vengeance recita, non a caso, la traduzione inglese del titolo originale - istituendo un parallelismo tra Ryu e il suo alter ego femminile Geum-ja, Signor e Signora Vendetta uniti dall'empatia del pubblico.
I toni freddi e obituari della fotografia di Byeong-il Kim restituiscono l'impressione di una realtà emotivamente svuotata, mortifera e voyeuristica in senso necrofilo (il verde è quello, hitchcockiano, de La donna che visse due volte e Nodo alla gola), a cui solo il rosso cupo del sangue e l'arancio brillante di un abito infantile restituiscono calore. Il fuoco (come l'acqua) è solo un altro ornamento funebre.
Sebbene presenti, a livello narrativo, un grado di realismo superiore ai capitoli successivi, in senso discorsivo Mr. Vendetta afferma (paradossalmente) un gusto per la distorsione poi attenuato in Old Boy e in Lady Vendetta. Attraverso l'uso di obiettivi grandangolari e inquadrature inconsuete per inclinazione e angolazione, Park deforma il reale fino a renderlo mostruoso, dipingendo un quadro espressionista che prefigura quello esposto nella cella di Dae-su.
La sceneggiatura frammentaria firmata dallo stesso regista con Jae-sun Lee, Jong-yong Lee e Mu-yeong Lee, si allontana presto dal proprio centro, deviando dal percorso inizialmente delineato per precipitare in un'ecatombe priva di speranza. La vendetta, totale e totalizzante, è una partita a scacchi che annienta le vite di tutte le pedine in gioco e che si propone infinita: non esiste redenzione, per nessuno. All'inizio del suo cammino sul sentiero della rivalsa, Park ostenta una cattiveria caustica e distaccata che non lascia scampo, destinata ad ammorbidirsi soltanto con la parziale redenzione di Dae-su e la piena espiazione di Geum-ja. Per il momento, non c'è catarsi.
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