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9/10

Bella e perduta regia di Pietro Marcello

Documentario
recensione di Maria Vittoria Novati

Dalle viscere del Vesuvio, Pulcinella, servo sciocco, viene inviato nella Campania dei giorni nostri per esaudire le ultime volontà di Tommaso, un semplice pastore: mettere in salvo un giovane bufalo di nome Sarchiapone. Nella Reggia di Carditello, residenza borbonica abbandonata a se stessa nel cuore della terra dei fuochi, delle cui spoglie Tommaso si prendeva cura, Pulcinella trova il bufalotto e lo porta con sé verso nord. I due servi, uomo e animale, intraprendono un lungo viaggio in un’Italia bella e perduta, alla fine del quale non ci sarà quel che speravano di trovare.

E' difficile descrivere cosa sia esattamente l'ultima opera di Pietro Marcello. Come il suo precedente La bocca del lupo del 2009, anche in Bella e perduta realtà e finzione si mescolano in un connubio nel quale è difficile stabilire il confine tra il documentario e la storia di finzione. Proprio questo senso del limite, la sua mancata percezione da parte dello spettatore, rende quest'opera straordinaria. 

La vicenda si sviluppa su tre diversi piani. La Realtà, ovvero la vicenda di Tommaso, instancabile protettore e "angelo" dell'abbandonata Reggia di Carditello (provincia di Caserta, nucleo principale dell'area "Terra dei fuochi"). La Narrazione, incarnata da Pulcinella (Sergio Vitolo), maschera intermediaria tra i vivi e i morti e per questo incaricato di raccontare la storia di Tommaso in seguito alla sua dipartita, nonché di esaudire le ultime volontà di questo: prendersi cura di un bufaletto (che lui aveva trovato) e di portarlo via, lontano, perché se rimane lì rischia la morte. Infine l'ultimo piano corrisponde alla Finzione vera e propria, ovvero la storia del bufaletto Sarchiapone (voce fuori campo di Elio Germano) che si racconta anche attraverso la sua precisa prospettiva (anche attraverso la sapiente scelta delle inquadrature e della fotografia.

Questi tre piani si combinano in maniera tale da far risaltare una serie di metafore: la reggia di Carditello a simbolo dell'incuria generale (microscopica se riferita al territorio circostante, macroscopica se in riferimento all'Italia tutta), fino al momento in cui lo Stato (nota bene: lo Stato parla con un forte accento nordico – piccolo cameo di Claudio Casadio –) se ne impossessa solo formalmente, ma senza risolvere la situazione di incuria – forse anzi tende a complicarla ulteriormente –. Il piccolo bufaletto Sarchiapone, costretto a scappare dalla sua terra per non morire, rievoca immagini di emigranti che dal Sud si spostano verso il Nord in cerca di una vita, di un'opportunità in più di vivere e non di sopravvivere. A stare fermi si muore, come gli altri bufaletti abbandonati sul ciglio della strada (sono maschi, inutili perché non producono latte) e che i due protagonisti non possono portare con sé. Sarchiapone, con i suoi grandi occhi languidi, è l'emblema di tutti quei figli nati da una madre indifferente e appartenenti ad una patria che si cura ancor meno di loro. In mezzo a questi c'è Pulcinella, l'intermediario. Sospeso e combattutto tra la maschera che porta e l'individuo che si nasconde dietro di essa. Quando ad un certo punto Pulcinella deciderà di levarsi quella maschera, di scrollarsi di dosso un fardello, una "schiavitù" dalla quale bisogna liberarsi (l'idea oleografica ma ormai datata del Meridione?), cercherà di portare il suo amico Sarchiapone con sé nella Realtà. Il bufaletto tuttavia non lo può seguire, perché il suo parlare è reso grazie alla Finzione. Se seguisse l'ex pulcinella nella Realtà (così come la disegnano e la vedono gli uomini) non sarebbe più in grado di raccontare. E' proprio attraverso la favola che si è più in grado di raccontare la tragedia del vivere. In questa consapevolezza di Sarchiapone sta il senso di tutta la vicenda: la finzione è più vera della realtà stessa- Certamente non è una novità, ma un Pulcinella che cammina su una strada, che parla con le persone e le persone a loro volta gli toccano la gobba per avere un po' di fortuna, che trascina un bufaletto in giro, qui è reale, credibile e lo spettatore si sente coinvolto.

In un'atmosfera onirica e surreale il regista ci racconta di un'Italia dimenticata. Ci racconta la sua rabbia per le continue occasioni perdute di recuperare la bellezza, ma la sua è una rabbia quasi impalpabile, tutta incanalata in questo sogno fiabesco dalle tinte simili a quelle di un quadro di Turner. Tale è l'avvolgimento in questa atmosfera che anche lo spettatore all'indignazione sostituisce l'incanto. In una contemporaneità in cui tutti i film hanno un bisogno quasi morboso di specificare "tratto da una storia vera", Marcello lo rifugge completamente e anzi impone la Finzione come la sola vera chiave di volta per raccontare qualcosa. Mai come oggi abbiamo l'assoluta necessità di tornare a questo: non la verità per la verità, ma piuttosto la narrazione per la verità. Per quanto un'opera come questa passi molto sottotono, si tratta di un gioiellino di questi ultimi anni. 

 

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