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8/10

Il Processo di Giovanna d'Arco regia di Robert Bresson

Storico
recensione di Alessandro Pascale

Storia del processo-farsa svolto dagli ecclesiastici inglesi contro l’eroina francese Giovanna d’Arco, pulzella rea di aver guidato il suo popolo a vittorie militari strepitose su suggerimento di voci divine.

Bresson è uno di quei registi che difficilmente colpiscono le grandi masse, dato il suo carattere essenzialmente antispettacolare, o meglio a-spettacolare, per cui il film diventa un’occasione di raccontare nel modo più asciutto possibile una storia, una trama, un valore. Il processo di Giovanna d’Arco rappresenta forse l’apice di una ricerca stilistica che il regista francese ha portato avanti nell’arco di oltre quarant’anni lavorando a pochissimi film (poco più di una decina, rivelando una media quantitativa davvero povera nonché un labor limae enorme). Qui si raggiungono infatti i massimi esempi di un’idea di cinema tutta incentrata sull’essenzialità dell’evento in sé. Nessun orpello, ritocco, fiocco a colorare e dare vivacità gratuita.

Gli elementi con cui si raggiunge questo stato di cinema narrativo quasi primordiale sono più privativi che altro: l’intervento della musica viene ridotta ai minimi termini, tanto da apparire completamente assente; manca un evidente tipo di recitazione realistica (ben evidenziato dalla protagonista Florence Delay, totalmente passiva e impersonale), alla ricerca di un’estremizzazione quasi teatrale tanto è artificiale; precisa anche la scelta consueta dei luoghi unicamente chiusi, tendenzialmente claustrofobici tanto scarni e rigidi (il parallelo più evidente, anche per la tematica della prigionia è da fare con Un condannato a morte è fuggito); manca di fatto uno qualunque tentativo di riscrittura reale della storia: lo sceneggiatore è lo stesso Bresson che per l’opera si rimette completamente ai documenti reali della vicenda, nell’ottica di rimanere il più fedele possibile al testo; sempre in quest’ottica l’idea di un film dalla durata anomala (appena un’ora), proprio perché deciso a non aggiungere nulla più che il minimo indispensabile alla ricostruzione asciutta dei fatti; scontata infine la fedeltà al bianco-nero rispetto al colore che nello stesso periodo inizia a imperversare quasi ovunque.                                            

Sulla regia di Bresson poi si può discutere quanto si vuole, ma così come per un altro maestro dell’essenzialità cinematografica (Rossellini) vale il principio per cui ogni ripresa che possa apparire anche solo per un attimo fine a sé stessa deve essere eliminata. Pensare a una camera a mano o a una carrellata diventa quindi pura utopia e l’intero film si poggia su una solida alternanza di campi e controcampi, secondo una precisa scelta autoriale di privilegiare la sacralità della parola, e quindi di far risaltare lo spessore mistico che circonda la figura di Giovanna d’Arco. Personaggio quest’ultimo che ben si adatta allo stile di Bresson per questa sua attitudine monacale tendente al rifiuto di ogni cosa superflua (nel suo caso tutto ciò che non viene in qualche maniera diretta da Dio).

Il messaggio morale che ne consegue è gigantesco: Bresson riesce a dipingere un’eroina marmorea evitando di elevarla verso canoni divini, bensì facendo leva sulle sue debolezze umane, appena colte realisticamente qua e là tra un pianto catturato e un’abiura presto ritrattata.   Mi rendo conto che sia un cinema difficile quello di Bresson, oggi particolarmente anacronistico per gli spettatori salottieri e meno attenti. Eppure un cinema apprezzatissimo dalla critica, tanto che questo stesso film venne premiato con il Premio Speciale della Giuria di Cannes (1962).

Erano gli anni della Nouvelle Vague e di una rivoluzione stilistica imperiosa che procedeva su binari completamente opposti da quelli seguiti da Bresson, maggiormente esemplificativo di un cinema inserito nfei 50s, povero, privo di mezzi e pedagogico. Certamente però non ce la sentiamo di condannare Cannes per una certa visione classico-retrograda, in quanto Il processo di Giovanna d’Arco più che essere un residuale del passato pare già aprire le porte a un’idea di cinema che sarà pienamente valorizzata in epoca moderna e post-moderna.

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