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7/10

La Religiosa regia di Guillaume Nicloux

Drammatico
recensione di Alessandro Giovannini

Libero adattamento del romanzo omonimo di Diderot: nel 1760 Suzanne (Pauline Etienne), rampolla di una famiglia nobiliare in declino, viene costretta dai genitori in convento; dopo un'iniziale apprezzamento, Suzanne si accorge di non avere alcuna vocazione, ma la famiglia non vuol sentire ragioni; passando da un convento all'altro subirà vari tipi di vessazioni, fino a progettare la fuga.

Pare che quest'anno la Francia stia virando decisamente verso la secolarizzazione. L'approvazione della legge che consente i matrimoni tra persone omosessuali ha trovato la propria bandiera nella Palma d'Oro di quest'anno, La vie d'Adele, cronaca di un amore lesbico in età adolescenziale (sempre a Cannes è comparso inoltre L'inconnu du lac, incentrato invece sul versante gay). I cattolici di Francia, già duramente provati, dovranno ora fare i conti con un adattamento cinematografico che chiama in causa gli stessi istituti religiosi, e la pratica della religione come esercizio di potere e di controllo sui più deboli. A distanza di quasi 50 anni dalla precedente versione di Jacques Rivette (Susanna Simonin, la religiosa, 1966), Guillaume Nicloux recupera il libello di Diderot - caustico attacco alla religione scritto da un fervente illuminista - per farne una nuova versione.

Il regista opta per una messinscena realistica, lontana sia dal misticismo ieratico (ma assai laico) di Rivette, sia dall'eccesso grafico che ci si potrebbe aspettare da un racconto che include violenze sadiane e perversioni femminili. Con un occhio indagatore ma non voyeurista Nicloux filma la sua Suzanne, eroina della perseveranza, martire delle logiche economico-religiose dell'epoca, con partecipazione dolorosa ma lievemente distaccata, quel tanto che basta per non cadere nel melodramma o nell'eccesso della messinscena: le angherie subite dalla ragazza da parte di una perfida madre superiora sono così mostrate più nelle loro implicazioni psicologiche che fisiche, così come le avances cui è soggetta da parte di un'altra monaca (Isabelle Huppert) sono visivamente assai caste, tanto da deludere chi si aspetta qualche risvolto pruriginoso che relazioni questo film ai nunsplotation stile Interno di un convento (1978) o Flavia, la monaca musulmana (1974).

Se da un lato questa pudicizia è encomiable, dall'altro si avverte per tutto il film la fastidiosa sensazione che il regista si sia trattenuto troppo: le ragioni dei personaggi  sono chiare e ben esposte, ed il dissidio interiore della protagonista è evidente. Tuttavia ci si chiede se ciò che si vede a schermo sia effettivamente sufficiente a far passare l'idea che sta sotto la narrazione, ovvero una denuncia della Chiesa come complice dei poteri forti e tutto fuorchè luogo di venerazione del sacro (le uniche suore buone o si uccidono o sono messe in disparte, mentre a governare sono madri superiore kapò o lussuriose). Nel ricercato lieto fine (che cambia lo scritto originale ed il film di Rivette) e nella metodica punizione dei colpevoli, un sospetto di moralismo o di mancato coraggio da parte dell'autore si fa largo nella mente dello spettatore.

Bel cast, eccellente il reparto costumi, che occulta questi esseri umani reclusi nei drappeggi delle vesti monacali, lasciando spazio solo per la rosea carnagione dei visi, unico scintillìo di individualità, di libertà, all'interno di una prigione di regole e di dogmi.

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