L'Industriale regia di Giuliano Montaldo
DrammaticoNicola, industriale torinese, è strangolato dai debiti, la sua società sta fallendo. Laura, sua moglie, è sempre più distante e lui comincia a sospettare della sua fedeltà. Tutto precipita per poi tornare a posto, ma Nicola ha un segreto da nascondere…
Il Lavoro rende...?
L'ultimo film di Giuliano Montaldo (regista affermatosi già negli anni 60 e autore di film prestigiosi) è insieme un noir e un melodramma, girato in una Torino nebbiosa e invernale sembra realizzato usando un viraggio in grigio, tanto che molte scene appaiono quasi in bianco e nero. Tutta questa cupezza invernale è il sintomo e il background dietro i quali si sviluppano due vicende parallele: la crisi della fabbrica di Nicola, industriale onesto che segue l'impresa del padre, e la crisi della sua vita familiare con una moglie che lo ama, ma sembra allontanarsi da lui. Le banche e le finanziarie non concedono prestiti a Nicola per mancanza di garanzie, l'unica via d'uscita dal crollo sembra una difficile acquisizione da parte di un gruppo tedesco. Intanto la sua vita sentimentale peggiora notevolmente, complici la suocera altezzosa e l'interesse della moglie (Carolina Crescentini) per Gabriel, un garagista rumeno (Eduard Gabia). La presunta relazione farà presto precipitare le cose e l'industriale alla fine troverà la fortuna lavorativa macchiandosi però di un delitto che sancirà la fine della sua relazione con la moglie Laura: "Alla fine hai fatto la guerra contro il mondo, peccato che abbia pagato il più debole".
Montaldo gira magistralmente un film melò d'impegno senza sbavature, la tecnica registica è sempre pulita e corretta, il film è lontano dalle ambizioni grottescamente deformanti di un Sorrentino, ma dimostra che la nostra cinematografia sa esprimere qualcosa anche girando in maniera classica. L’Industriale si dimostra quindi un film con un alto tasso di melanconia e tristezza, lontano da un cinema di denuncia o d’impegno sociale, in tutta la pellicola tira un’aria tetra degna di un racconto di Kafka. Se l’intento ambizioso, annunciato dal regista, era quello di far discutere dell’ attuale situazione economica con questo film non ha raggiunto lo scopo perché si verifica uno slittamento nel genere melodrammatico che lascia solamente accennati gli aspetti di rilevanza sociale. L’interpretazione di Favino è decisa e sincera anche se non convince del tutto il personaggio, a metà tra il macho teutonico stile Leonida di 300, visibile nelle sequenze della piscina e della sauna, e l’industriale cravattato che però non disdegna il lavoro più umile e in particolare quello operaio. Nicola fondamentalmente è ritenuto dall’alta società torinese un uomo ormai fallito come fallimentare è il destino della sua impresa.
Nonostante i suoi sforzi di risollevarsi e complice anche la sua testardaggine, Nicola resta un ingenuo, un guten menschen opposto totalmente alla figura sgradevole e spregiudicata di Ernesto Botta ne Il Gioiellino di Andrea Molaioli. Nicola non si inventa i soldi per far quadrare i bilanci, decide di seguire la via più difficile e più legale dei prestiti delle banche anche quando queste in effetti praticano delle vere e proprie estorsioni ed usure legalizzate. Se dovessimo sintetizzare il film in un unico stop-frame potremmo benissimo tenere buona quell’ inquadratura sul Po, freddo, grigio e immerso nella nebbia di una Torino in gennaio, all’ alba, prima che le industrie aprano i cancelli, prima che i lavoratori comincino le loro mobilitazioni fuori dalle fabbriche, prima che la macchina del lavoro e del denaro si metta in moto con il suo continuo fondersi di patti virtuosi e patti mafiosi. L’aria tesa e acre che avvolge la società torinese è quella della crisi economica attuale con le sue ingenti contraddizioni finanziarie dove la vita aderisce alla consueta legge della giungla: l’homo homini lupus di Montaldo regge fin quando ci si limita a fotografare una società corrotta e senza via di scampo, ma proprio in questo pessimismo sociale sta l’incapacità e il limite di gran parte del cinema italiano contemporaneo, vale a dire confrontarsi con quello che sarà invece il nostro futuro e le sue possibili declinazioni. Ripartiamo quindi dalla triste frase iniziale “Il lavoro Rende…” dove il frei non ha mai incominciato ad esistere, per aver più fiducia nelle sfide del futuro.
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