ACAB - All Cops Are Bastards regia di Stefano Sollima
DrammaticoTre agenti antisommossa, Negro, Mazinga e Cobra, amici da una vita, fratelli sul lavoro. Si aggiunge il giovane Spina. Tutti e quattro sfogano sul lavoro, a colpi di manganello, la frustrazione di una vita infelice: Negro è stato lasciato dalla moglie cubana e ha impedimenti nel vedere sua figlia, Mazinga ha un figlio degenere che rifiuta l'autorità e commette piccoli crimini, Cobra ha sulle spalle un'accusa per violenze e Spina vive sulla propria pelle il dolore dello sfratto e l'impossibiltà di sistemare sua madre in una casa popolare, accusata abusivamente.
Dopo il successo riscosso dalla serie Romanzo criminale, una sorta di cult generazionale italiano per il piccolo schermo, il promettente regista Stefano Sollima sbarca al cinema con A.C.A.B.: All Cops Are Bastards, titolo equivoco che mutua la celebre espressione della tifoseria inglese e pretende di rappresentare le vite di uno sparuto gruppo di celerini -nome comune affibbiato ai membri del Reparto Mobile della Polizia di Stato. Una squadriglia d'azione rancorosa, fermamente legata ai primordiali valori di onore e amicizia, un goliardico gruppo di fratelli -così si chiamano tra di loro- schiacciati nel vortice di un paese di cui si vagheggiano i veleni incurabili.
Il problema è che, nel guado dal piccolo al grande schermo, il regista romano sembra non riuscire a sbarazzarsi del peso ingombrante del serial televisivo che l'ha reso noto e finisce per caricare di fumi (banali) da mafia-movie un film che si focalizza sulla rappresentazione della faccia diametralmente opposta della medaglia: quella dei servi della legge. Troppi momenti si colorano di un becero machismo a oltranza, fatto di voci rauche, parolacce, frasi di rito di cui abbiamo le palle piene, risse fraudolente, schizzi di sangue oltre che di una melensa quanto ostentata epica gladiatoria. I poliziotti che tentano di placare i rancori negli stadi, appaiono pervasi da un'indomabile odio a fior di pelle che non si frena nemmeno davanti alle donne, e non esitano a tartassare un mucchio di minorenni per promuovere un'operazione di vendetta che tanto puzza di cosca mafiosa o associazione a delinquere.
Pare quasi che Sollima abbia saccheggiato l'idolatrato corredo di Romanzo Criminale -la serie come l'ottimo film di Placido, da cui ricava anche il protagonista Favino- per applicarlo, senza farsi troppi problemi, al suo film. Come se l'intenzione di creare qualcosa di nuovo sia stata soppiantata di punto in bianco dall'incontenibile necessità di adattare una formula che tanto piace, per irretire un certo strato di pubblico, quello più giovane o forse più vicino al mito del criminal hero di borgata.
Quando non tratta di scontri e risse, la narrazione si muove su binari alternati, tanti quanti sono i protagonisti, e tenta di realizzare un affresco sociale dell'Italia contemporanea. Una linea che probabilmente, trattata in modo continuativo ed esauriente avrebbe fatto guadagnare al film non pochi punti. Scorrendo tra le vicende parallele dei fratelli d'assalto, Sollima delinea il dramma delle occupazioni abusive, tratteggia duramente -ma con coraggio- il problema degli stranieri privi di permessi di soggiorno, accenna ai meccanismi dell'affidamento minorile e si apre alle dinamiche di pensiero di certi gruppi eversivi e conservatori.
Il problema è che un simile tentativo di analisi ha poco spazio di manovra nell'economia del film e questo lo riduce spesso ad un affresco bigotto e carico di stereotipi (specie sugli extracomunitari, catalogati il 90% delle volte come i cattivi) di un'Italia destrorsa, se non fascista, incapace di interrogarsi criticamente su sé stessa e sul proprio passato e pronta a distruggere il diverso, facendo -come comunemente si dice- di tutta l'erba un fascio.
In definitiva, cosa cerca questo film ibrido, furbo e ruffiano (per non dire paraculo)? Semplicemente una facile e banale illustrazione della presunta anima sadica delle forze dell'ordine? O per converso, una giustificazione di quella stessa brutalità in virtù della loro natura umana, fragile e sottomessa a una vita di stenti? Un apologo della vera amicizia e dell'assunto per cui “solo sui tuoi fratelli puoi contare”? O una cruda invettiva contro un potere politico marcio (quello italiano) che giunge a seminare odio in ogni dove?
Probabilmente A.C.A.B. è una voluta mistione di tutto questo, arricchita peraltro da interpretazioni di livello (specie quelle di Nigro e Favino). Il guaio è che a furia di mischiare, gli obbiettivi restano confusi e sfocati.
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