Only God Forgives regia di Nicolas Winding Refn
ThrillerJulian vive a Bangkok con il fratello Billy. Quando quest’ultimo viene ucciso, la madre rientra dagli Stati Uniti per chiedere vendetta. Ma Julian conosce la causa dell’omicidio e non vuole intervenire.
Giulia Bramati (voto 6):
Non solo Dio perdona. Forse anche gli ammiratori di Nicholas W. Refn possono perdonarlo per questa sua nuova pellicola "Only God Forgives", che non convince.
A sua difesa, va detto che dopo aver girato un capolavoro come "Drive" è difficile riuscire a ripetersi, soprattutto se si utilizzano gli stessi mezzi a supporto di una sceneggiatura scialba.
Il regista cerca di non deludere le aspettative presentando un film che lui ha definito mistico per il suo sapore orientaleggiante. Ambientato nella periferia malavitosa di Bangkok, il film racconta la storia di Julian, uno spacciatore di droga solitario che passa le sue serate in compagnia di una prostituta. Quando suo fratello Billy viene ucciso, giunge dagli Stati Uniti la madre, decisa a vendicarlo. Julian rifiuta di accontentare la richiesta della madre perché conosce il motivo per cui il fratello è stato ucciso: a sua volta egli aveva violentato e ucciso la figlia del suo assassino.
Il film procede lento, la storia tarda a concretizzarsi. Refn cerca di trascinare lo spettatore in questa atmosfera buia e ambigua, ravvivata soltanto dalla potente colonna sonora di Cliff Martinez. La fotografia è perfetta, come del resto lo sono le luci, saggiamente disposte per ricreare ambientazioni suggestive. Viene fatto largo uso di luci al neon per creare particolari scenari, soprattutto luci rosse nelle scene in cui sono presenti prostitute e luci blu nelle scene di lotta. Già in “Drive", però, avevamo visto queste scelte, dunque Refn sembra ripetersi, senza aggiungere nulla di nuovo.
La narrazione procede attraverso i primi piani dei protagonisti, si predilige il silenzio alla parola. I dialoghi sono ridotti al minimo e non risultano particolarmente brillanti. Unica eccezione sono le battute affidate al personaggio della madre, interpretato da una sorprendente Kristin Scott Thomas, perfettamente a suo agio in un ruolo tanto diverso da quanto ci ha abituati a vedere finora.
Ryan Goslin interpreta Julian e si cala anche nel ruolo di produttore esecutivo. Evidentemente l'attore ha creduto nel talento di Refn, che gli ha regalato un clamoroso successo affidandogli il ruolo di protagonista in "Drive". In "Only God Forgives" Goslin è piuttosto inespressivo - come del resto gran parte del cast.
Molte sono le scene di violenza che si susseguono nel corso della pellicola. Sin dall'inizio, quando Billy compie una carneficina, viene dato ampio spazio alla tortura e al sangue.
La regia non è maniacalmente curata come in "Drive". Refn è sì attento ai dettagli, come si intuisce dalla numerose inquadrature delle mani di Ryan Goslin, elemento centrale in tutta la pellicola, ma non si spinge oltre a questo.
L'elemento più rilevante di "Only God Forgives" è dunque la fotografia. Il DP Larry Smith si dimostra attento a dare equilibrio alle inquadrature attraverso uno studio geometrico e cromatico: gli shots risultano molto ben bilanciati. Spesso, nelle scene in cui il protagonista Julian è solo, la macchina da presa viene posta in una stanza adiacente a quella in cui sta lui, provocando un effetto di cornice creato dal vano della porta che collega le due stanze. Questa scelta risulta funzionale alla narrazione.
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Alessio Colangelo (voto 8):
“È inutile chiedere a dio ciò che si può ottenere da soli.” Alejandro Jodorowsky
Non esiste un solo fotogramma del film che non abbia una estrema estetizzazione dell’ immagine. Inquadrare per Refn è un atto che viene caricato di una serie di elementi che potremmo definire come segni, simboli, a volte metafore. Oggetti e uomini si mescolano in un cortocircuito metanarrativo immerso in una atmosfera perennemente satura di ogni tipo di cromatismo. Infatti l’uso del colore, esagerato ed eccessivo, verrà sicuramente notato dallo spettatore (ricordiamo che Refn è daltonico) e si noterà inoltre come venga anch’esso risucchiato dalla violenza pervasivamente intrinseca ai personaggi Refniani. Il film, per certi versi astratto e permeato da una logica di raffigurazione a tratti onirico-simbolica, ci parla soprattutto della grande conflittualità interna all’essere umano diviso a metà tra la purezza e la dannazione. Mentre in Quentin Tarantino la violenza rappresentata diventa una forma artistica, ma anche un fine narrativo, nel regista danese la violenza assume il ruolo di paesaggio caricando la narrazione di immagini di luoghi chiusi e borderline; raffigurando bordelli , sale da ballo, night club, strade deserte, il regista ci pone in un ambiente il più possibilmente degradato, ma con l’accortezza di rendercelo quasi piacevole dipingendolo con colori forti e giocando anche con contrasti di luce particolari che riescono a spiazzare lo sguardo dello spettatore: ecco dunque il contesto nel quale il corto circuito estetico tra colore e violenza impone la sua importanza rispetto alla narrazione. La macchina da presa si muove lentissima lasciando al montaggio il compito di velocizzare e rendere frenetica la messa in scena. Nessuna sfocatura, tutte le immagini sono nitide e chiare, ma è proprio nella loro composizione prospettica e cromatica che risiede la loro indecifrabilità. Il suono interviene a colmare la scena con rumori metallici, cupi brontolii che aumentano l’idea del surreale e del magico. Per certi versi le atmosfere ricche di luci al neon, (rossi accesi e blu elettrici) ricordano un po’ i deliri visionari di Enter The Void di Gaspar Noè anche se la raffigurazione dell’uomo, nel film di Refn, tende ad includere l’essere umano all’ interno della rappresentazione con schiaccianti primi e primissimi piani. Con dialoghi ridotti all’essenziale il film lascia spazio alla convincente mimica degli attori: Ryan Goslin dimostra di essere un attore capace di dare molte sfumature ad un personaggio che preferisce l’azione alla parola; notevole la performance di Kristin Scott Thomas qui alle prese con una very bad-mama per la quale la brama di vendetta finirà per ucciderla. Il tema centrale del film è proprio quello della vendetta e della punizione che il poliziotto spietato opera al di fuori della legge. Proprio come in un western trapiantato in Thailandia assistiamo alla implacabile distruzione di tutti i personaggi, nel finale ci viene da affermare che non resta nemmeno il poliziotto, ma solo la sua indiscutibile malvagità. Solo dio Perdona.
In conclusione possiamo affermare che Nicholas Winding Refn resta un regista con una propria precisa poetica filmica pienamente iscrivibile in uno stile citazionista e post-moderno, i suoi film sono pienamente “cinematografici”. L’unico difetto di questo film è la mancanza di una storia originale capace di coinvolgere lo spettatore da un punto di vista narrativo, ma Refn potrà forse stupirci di nuovo nel suo prossimo film I Walk With The Dead che ci porterà in nuovo violentissimo paradiso (o inferno?) visionario.
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