Taxi Driver regia di Martin Scorsese
ThrillerIl veterano del Vietnam Travis Bickle lavora la notte, come tassista. I suoi viaggi attraverso i bassifondi della decadente, grottesca New York notturna lo portano ad esecrare i delinquenti che la popolano e a compatire, e cercare di salvare, le loro vittime.
Ci sono film che hanno trovato un posto di lusso nel panorama storico della settimana arte. Ci sono film che si sono insediati nell’immaginario collettivo mondiale, con inquadrature, battute e scene. Ci sono film che hanno lanciato dei geni artisti della recitazione. Ci sono film che hanno parlato di sé, di noi e dell’umanità tutta. Ci sono film che ci hanno semplicemente lasciati estasiati.
Taxi Driver di Martin Scorsese è tutto questo, ed è ben oltre. È il film manifesto della cinematografia anni ’70, assieme ad altri grandi colossi, come l’insuperabile Apocalypse Now di Coppola fra tutti. Taxi Driver è la storia di un tassista, Travis Bickle; è la storia di New York di notte, la storia dell’America anni '70 dove la guerra del Vietnam miete ancora le sue vittime tra i sobborghi urbani, in prostitute, razzisti, spacciatori, venditori di armi, gestori di film a luci rosse, politici bigotti. I valori degli anni ’60 lasciano spazio ad una generalizzata disillusione, ad una nevrosi complessiva, ed a una leggera, ma tagliente, depressione umana.
Travis è una delle vittime per eccellenza di questo sistema corrotto, di questo meccanismo dagli ingranaggi mal funzionanti: solo, con poche speranze, non amato, sputa sulla società e disprezza la sua città e suoi rifiuti, umani e non; non gli va giù nulla di tutto ciò, vuole reagire, combattere contro queste strade e mostri di cemento che lo isolano all’interno di un’auto gialla, nel buio della notte. Da essa, dai riflessi dei specchietti, dai finestrini, e nel sedile posteriore, Travis osserva la realtà che si muove attorno, e prende coscienza sempre maggiore dello schifo che lo sovrasta: egli non è distaccato e profondamente emarginato, se ne distanzia perché non si riconosce con quella perdita di valori, ma ne viene intimamente influenzato.
Il suo sguardo diventa lucido di pazzia, la sua risatina nevrotica e la sua disillusione e “incazzatura” quasi totale. Vuole risolvere e pulire “tutta questa merda” a modo suo, e lo farà. Scorsese qui diventa un grande cineasta, questo film lo porta verso l’olimpo dei grandi. Entra con la sua camera nella New York seventies, e ci narra con uno stile unico, rigoroso, poetico e intimista, Travis a tuttotondo, e la realtà in cui si muove e agisce. Il suo taglio è profondamente critico, potente e ancora nettamente attuale, egli fotografa quella vita con una lucidità che lascia affascinato ogni singolo spettatore.
E regala alla storia del cinema pezzi unici, repertori di classe, ormai cult, anzi, classici ed eterni: la scena dello specchio e il famoso “Are you talking to me?”, Travis che porta la ragazza con cui esce ad un cinema a luci rosse come primo appuntamento, l’inquadratura sul finale del film, dove Travis bagnato di sangue, mima con il dito la pistola, se lo porta alla tempia e fa il verso dello sparo: “boom”, ripetuto varie volte. E tanto altro ancora. Ci regala personaggi unici, come Iris, ragazzina prostituta, interpretata da una giovane, ma talentuosa Jodie Foster, e Matthew, pappone coi capelli lunghi, reso da un insolito e bravissimo Harvey Keitel.
E infine una nota di merito, oltre alla splendida, angosciante e ossessiva partitura di Bernard Herrmann, va a lui: Robert De Niro. Scorsese lo prende, lo alleva e lo fa diventare un mostro della recitazione. Qui egli fa il massimo che si può chiedere ad un attore: dare vita ad un personaggio, e impossessarsi del suo corpo e anima. Annullarsi, e diventare esso. Praticamente, storico e cult!
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