The Wolf of Wall Street regia di Martin Scorsese
DrammaticoDopo il crollo dei mercati azionari del 19 ottobre 1987, l'ambizioso venticinquenne Jordan Belfort (Leonardo DiCaprio) lascia gli uffici di Wall Street per radunare un gruppo di spiantati stockbroker e fondare con il socio Donnie Azoff (Jonah Hill) la propria agenzia di intermediazione, la Stratton Oakmont Inc. I metodi poco ortodossi lo renderanno in breve scandalosamente ricco, ma tra droghe, stravizi sessuali, frodi fiscali e conti svizzeri, non ci vorrà molto prima che l'FBI si metta sulle sue tracce.
Fulvia Massimi (voto 8):
La fiaba tridimensionale del "cinefilo" parigino Hugo Cabret aveva offerto a Martin Scorsese l'opportunità di dichiarare il proprio amore per la settima arte con un film che omaggiava le origini stesse del cinema e di uno dei suoi più eccentrici padri fondatori, il "prestigiatore" George Meliés. La parentesi magica basata sul graphic novel di Brian Selznick e chiusa nell'annus mirabilis del cinema(tografo) auto-celebrativo (il 2011 di The Artist), lascia tuttavia i suoi strascichi anche nell'opera ultima del maestro neo-hollywoodiano.
Scorsese non perde infatti il proprio spirito meta-cinematografico, e con The Wolf of Wall Street non recupera soltanto il proprio attore-feticcio (Leonardo DiCaprio, istrionico più che mai) e l'interesse per il biopic storico romanzato (già presente in Toro Scatenato e The Aviator), ma anche l'inclinazione verso un cinema che al classicismo dell'impostazione stilistica affianca tuttavia un'attitudine sovversiva, tesa a svelare i meccanismi stessi dell'illusione cinematografica, non diversamente dalla messa in mostra degli ingranaggi dorati cari al piccolo Hugo.
Ispirandosi al controverso memoir del criminale Jordan Belfort (cameo nel finale), Scorsese realizza una pellicola esagerata (nella durata come nei contenuti) e politicamente scorretta, che glorifica il proprio protagonista al punto da suscitare il dibattito della stampa specializzata, infastidita dall'immoralità della voce narrante e dall'impatto eccessivamente ovattato della critica al mondo della finanza, e soprattutto della portata del danno umano causato dalla sconsideratezza dei suoi membri.
La parabola discendente di Belfort, che pure tocca livelli di abiezione umana non indifferenti, si muove infatti sul registro dello humour e dell'eccesso, istituendo un legame d'inevitabile empatia con il personaggio di DiCaprio (empatia che, come spiega Katherine Thomson-Jones, non implica necessariamente identificazione e condivisione etica) e scegliendo di mostrarne un annientamento relativamente indolore e volontariamente più comico che tragico.
Il "lupo"del titolo è allora più simile, nella morale, al personaggio della celebre favola esopica, che "froda" l'agnello e non sconta le (giuste) conseguenze della propria condotta criminale. Ma laddove nello scritto dell'autore greco il motto finale "contro chi ha deciso di far un torto non c’è giusta difesa che valga" esponeva cinicamente la propria funzione educativa, la chiusura scelta da Scorsese per il suo "lupo di Wall Street" tradisce piuttosto un'intenzione meno pedagogica e più propriamente cinematografica: raccontare la storia di una vita (in)credibile.
Nonostante l'assoluta fedeltà al romanzo di partenza sia in termini di struttura narrativa che di dialoghi, lo sceneggiatore Terence Winter - già autore per HBO delle serie di culto I Soprano e Boardwalk Empire (da cui la collaborazione con Scorsese) - fa dell'inaffidabilità del Belfort narratore il perno di uno script che del biopic ha solo l'aspetto (e i dati storici), ma che arriva a toccare con l'epica sequenza del naufragio in yacht le vette del romanzo di pura fantasia. Il ricorso alla voce-over narrante si affianca dunque all'utilizzo di espedienti metacinematografici volti a mettere a nudo la natura artificiosa del racconto di partenza così come della sua trasposizione filmica, esplicitando così la volontà non solo di parlare di Belfort per non dimenticarne i crimini, ma anche l'intenzione di evidenziare il potenziale altamente cinematografico della sua storia.
A partire dall'incipit leonino, Scorsese ricorre infatti all'interpolazione di immagini di repertorio e finti filmati pubblicitari per costruire un'architettura filmica composita, disorientante e frenetica, che non solo replica nell'andamento ritmico e nel montaggio (dell'immancabile Thelma Schoonmaker) il delirio narcotico del protagonista, ma che avverte inoltre il pubblico di non abbassare la guardia, affinché gli effetti paralizzanti dell'amato Quaalude di Belfort non si facciano sentire anche su chi guarda. L'interpellazione diretta dello spettatore da parte di Belfort/DiCaprio, così come l'esplicitazione dei pensieri dei personaggi, oltre ad offrire motivo d'ilarità, hanno dunque lo scopo di sfondare la parete della croyance cinematografica, indebolendo lo statuto di realtà dell'epopea belfortiana e acuendo il senso d'entertainment che da essa si genera.
L'interpretazione più che mai sopra le righe di DiCaprio - che per Scorsese si mette (letteralmente) a nudo, sottoponendosi ad ogni genere di sevizie (erotiche in primis) e rendendosi protagonista di alcune sequenze assolutamente memorabili (la follia finale da Lemmon 714, solo per citarne una) - è l'inevitabile corollario di una pellicola che non si pone barriere di genere, né tantomeno di gender, e che, a cominciare dal Guinnes dei primati infranto con il più alto numero di "fuck" pronunciati in 180' (tanto da far sembrare Tarantino un regista per educande), non si risparmia neppure su misoginia, omofobia, e stereotipi culturali di sorta (complice il banchiere svizzero Jean Dujardin).
E laddove l'ormai incontestabile antipatia dell'Academy verso DiCaprio ne renda la candidatura agli Oscar quantomai improbabile, la dentatura smagliante di Jonah Hill e i cinque minuti scarsi (ma più che sufficienti) d'istrionismo "sonoro" di Matthew McConaughey dovrebbero invece ricevere il meritato plauso, anche solo per la capacità di reggere, se non addirittura di rubare la scena al "factotum" di Scorsese per eccellenza. Per non parlare poi della splendida ventitreenne australiana Margot Robbie, che da hostess televisiva di Pan Am approda sul grande schermo in pompa magna, tenendo testa al ben più consumato co-protagonista con scene di sesso al limite dell'imbarazzo (per lui) e uno schiaffo da denuncia.
Sensibile ma non per questo scalfito dai richiami e dai puntigli della critica (a cui risponde pacatamente per le rime), Scorsese, come d'altronde il suo pubblico, sembra allora divertirsi un mondo nel realizzare una pellicola che, oltre a dispiegare un consueto armamentario tecnico di tutto rispetto, rivela una volta per tutte come il regista italo-americano continui a trovare nel cinema il proprio, personalissimo elisir di lunga vita. A 71 anni suonati - ma affatto sentiti - Scorsese regala ai suoi fedelissimi un film che potrebbe tranquillamente essere girato da un trentenne rampante, e da cui i "veri" trentenni del cinema hollywoodiano avrebbero solo e tutto da imparare.
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A. Graziosi (voto 7):
The Wolf of Wall Street è il ritorno alla regia, dopo qualche anno, di Martin Scorsese, il quale mette in scena un gigantesco ritratto di Jordan Belfort, celebre truffatore di decine di migliaia di risparmiatori statunitensi, il quale è riuscito a sopravvivere e a vivere quasi indisturbato un decennio di vita lussuosissima, sfrenata, letteralmente piena di droghe e di eccessi senza limite alcuno. Si tratta di un diretto adattamento del romanzo autobiografico di Belfort.
Grazie a questo film Leonardo DiCaprio, che desiderava che venisse realizzato da diversi anni, ha avuto la possibilità di mettere a punto una recitazione decisamente sopra le righe, accompagnato da un ottimo comprimario comico quale Jonah Hill e dall'eccellente mentore, secondario ma incisivo, interpretato da Matthew McConaughey.
The Wolf of Wall Street è un film ovviamente strepitoso dal punto di vista tecnico, riunendo i migliori talenti in tutti i campi, dal montaggio accattivante e perfetto di Thelma Schoonmaker, ai costumi di Sandy Powell, le scenografie di Bob Shaw, le musiche di Howard Shore, tutti pluripremiati.
Nonostante ciò, al tempo stesso, The Wolf of Wall Street non è pienamente quel capolavoro che ci si aspettava, dopo gli anni di attesa: il film non riesce purtroppo a mantenere alto il livello dell'attenzione e dell'interesse nel corso delle tre ore di pellicola, a causa forse di una scrittura che non sembra particolarmente snella e incisiva, soprattutto nella parte centrale del film.
Mentre visivamente, nella prima parte, Scorsese non fallisce mai nel mostrarci, con le sue doti registiche, tutto ciò che è umanamente desiderabile dall'uomo medio che sogna di arricchirsi, poi è come se il film cominciasse a ripetersi e a perdersi in dettagli non molto utili e mancasse nel fornire punti di vista diversi che arricchirebbero lo spessore del film, quando invece riescono a comunicare il senso e il motivo del tutto - in modo sintetico - le inquadrature finali, soprattutto l'ultima.
A parte il fatto assodato che The Wolf of Wall Street si pone volutamente in una linea di ambiguo misto tra ammirazione (per la furbizia e capacità di arricchirsi in una El Dorado senza fine) e riprovazione (in quanto dipendente da droghe e da sesso, e per l'illegalità del suo arricchimento, ma sembra che la sua parte di diritti sul film il Belfort originale l'abbia ricevuta...) la vera questione è se effettivamente questo film apporti qualcosa di nuovo rispetto a ciò che Scorsese aveva già portato in scena con Goodfellas e altre sue opere e se si tratti davvero un qualcosa, oltre che di originale, di interessante, provocatorio, coraggioso rispetto alla tematica in sé ed ad altri film già esistenti sull'argomento finanziario e sull'argomento "eccessi".
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