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8/10

Il braccio violento della legge regia di William Friedkin

Poliziesco
recensione di Carlo Danieli

Jimmi Doyle e Buddy Russo sono due detective della narcotici di New York. Una sera, seduti in bar, si mettono quasi per gioco a pedinare un piccolo pesce della malavita organizzata, tale Sal Boca, che in realtà sta facendo da intermediario con la Francia per un grossissimo carico di cocaina in arrivo da Marsiglia. L’indagine si fa sempre più serrata, fino alla resa dei conti finale.

Pochi registi nella storia ormai quasi centenaria di Hollywood hanno avuto un’influenza così importante sul modo di fare cinema come William Friedkin. Che non abbia la fama di un Coppola, di uno Scorsese o di Spielberg questo è certo, ma spesso la grande industria cinematografica ha posto nel dimenticatoio questo grande autore, che pure ne ha segnato in maniera indelebile la storia. Due film su tutti, i più famosi: L’esorcista e Il braccio violento della legge. Gli altri titoli sono spesso stati dei flop incredibili, puntualmente stroncati da una critica troppo severa ed incapace di comprendere il genio innovatore e controcorrente di William Fredkin. Il braccio violento della legge, traduzione italiana un po’ così del titolo originale The French Connection esce agli albori del 1971, e si capisce subito che non è un film come gli altri. Da qualche tempo ha preso vita ad Hollywood una nuova corrente, che verrà dai posteri chiamata New Hollywood, formata da giovani registi che, influenzati dal cinema europeo ed in particolare dalla novelle vague francese, hanno deciso di staccare con il cinema classico americano, fatto per lo più di kolossal e buoni sentimenti, per dare spazio alle problematiche a alle inquietudini che si vivevano nella società in quegli anni di fermento. Trovano spazio così, già dal 1969 con Easy Ryder di Dennis Hopper, argomenti fino ad allora tabù, come la condizione della donna, le insicurezze e le paure dei giovani di fronte al futuro, la sessualità, la rivisitazione della storia più vicina, il sottile confine tra bene e male che spesso riamane sfumato, e via dicendo. Il film di Friedkin respira quest’aria di rinnovamento che aleggia tra i giovani registi dell’epoca come lui, e diventa un film con gli anni capace di reinventare un genere, il poliziesco. La divisione manichea tra bene e male non esiste più: con French Connection nasce l’idea, intrisa di realismo, che non esiste un netto confine tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Poliziotti e criminali sono solamente due facce di una stessa medaglia: i primi agiscono ai limiti della legge i secondi appena al di fuori. Il film prende spunto dal libro di Robin More, il quale non fa altro che romanzare una vicenda realmente accaduta a New York nel 1962, con protagonisti due agenti della polizia (Eddie Egan e Sonny Grosso) che riescono a scoprire un grosso carico di eroina proveniente dalla Francia. La vicenda divenne famosa soprattutto per l’ammontare della cocaina sequestrata, ben 50 kg. Il libro di Moore ebbe un discreto successo, tanto che il produttore Philp d’Antoni ne opzionò i diritti e ne affidò la regia ad un giovane Friedkin, capace di trasformarlo in un grande successo (5 Oscar: film, regia, attore protagonista, sceneggiatura non originale, montaggio). Reinterpretazione di un genere si diceva: si travalica il confine bene/male e i personaggi che una volta erano i buoni in tutto e per tutti diventano più aderenti alla realtà. Così è anche per Jimmi Doyle, detto Popeye (Gene Hackman): il fatto che sia un polizotto non significa automaticamente che sia la personificazione della rettitudine. Beve, va a donne, fuma, usa modi brutali e poco consoni al distintivo che rappresenta. E il su collega Buddy Russo (Roy Scheider) non è da meno. Il loro obiettivo è il narcotrafficante francese Alain Charnier (Fernando Rey), un borghese dalle raffinate maniere.  Ed qua che Friekdin opera il primo magnifico stravolgimento. Il boss, il criminale per eccellenza diventa un gentiluomo borghese dai modi british, i poliziotti, tutori della legge e del bene, dei viziosi e rozzi uomini di strada. Forte di questa nuova potenza espressiva, il regista ci conduce nei meandri di una sporca e difficile New York, dove tra intercettazioni segrete, inseguimenti spettacolari e sparatorie da far west, inizia (e si conclude) un sottile gioco privo di regole e remore tra guardie e ladri. Fino al drammatico epilogo finale, che si chiude il film con un’ondata di raro pessimismo. La sceneggiatura, fatta di scarni dialoghi e lunghi silenzi, non incide in maniera profonda sulla caratterizzazione dei personaggi: il solo Doyle è descritto in modo più dettagliato. Il vero fiore all’occhiello del film, oltre ad un perfetta colonna sonora ed un’ottima fotografia, sta più che altro nel montaggio, che vede nelle scene d’azione il suo punto più alto. Memorabili quella a piedi in metropolitana in cui Charnier semina Doyle e lo saluta con un sorriso beffardo, e soprattutto quella nel mezzo del traffico di New York, dove Doyle insegue la sopraelevata da terra con automobile. Diventata una delle più celebri della storia del cinema per perfezione tecnica e tasso adrenalinico altissimo, che tocca l’apice nelle sequenze in soggettiva dall'auto, rimane uno dei migliori colpi di genio e soprattutto di incoscienza di Friekdin, coadiuvato da Bill Hickman, capo stuntman, soprattutto se si tiene conto che venne girata tra le strade di New York senza la preventiva autorizzazione a bloccare il traffico. In diversi punti infatti la circolazione era ”spontanea”. Piccola postilla che dimostra, come dirà Friedkin, quanto sia imprevedibile il “dio “del cinema: uno dei personaggi meglio riusciti, ovvero il boss francese Alain Charnier interpretato dall’enigmatico Fernando Rey, arrivò sul set del film per puro errore. Infatti il regista voleva "l'altro" attore che lavorava abitualmente per Luis Buñuel, ovvero Francisco Rabal, ma non ricordandosi il nome la produzione contattò Rey che entrò quindi per sbaglio nel progetto.

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