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5/10

Wonderstruck regia di Todd Haynes

Drammatico
recensione di Francesco Ruzzier

 

Due storie, due epoche, due idee di cinema scorrono parallele in Wonderstruck di Todd Haynes. Nella prima una bambina sordomuta del New Jersey scappa di casa per tornare della madre, una diva del teatro e del cinema impegnata in uno spettacolo a Manhattan. È il 1927, il cinema non aveva ancora conosciuto il sonoro e New York era una città ancora in costruzione.

Nella seconda un bambino del Midwest dopo aver perso l'udito a causa di un fulmine, decide di partire alla volta di New York per mettersi alla ricerca del padre che non ha mai conosciuto. È il 1977, al cinema i colori non sono mai stati così vivi e pieni di energia e New York era una città in pieno fermento.

 

Si rincorrono, si alternano e si intrecciano continuamente questi due piani narrativi, incaricati entrambi di portare avanti storie di scoperta e percorsi di crescita. Avendo per protagonisti due bambini sordi, lo fanno quasi esclusivamente per immagini: il primo ricalcando gli stilemi del cinema muto in bianco e nero; il secondo facendo respirare l'atmosfera black degli anni Settanta.

Per un regista come Todd Haynes, che della confezione e della ricerca filologica ha fatto sempre il punto di forza del proprio cinema, un'operazione di questo tipo sembrava sulla carta quantomeno interessante. Invece in questo caso i problemi iniziano proprio da qui: da un piano narrativo, quello del 1927, che vorrebbe ricalcare visivamente il cinema muto senza purtroppo riuscirci minimamente. Anziché apparire come un film degli anni venti, sia dal punto di vista della fotografia che da quello della recitazione, Wonderstruck sembra invece un film contemporaneo a cui è stato applicato un filtro in bianco e nero e sono stati tolti i dialoghi. In questo senso il sentiero narrativo ambientato nel passato appare totalmente depotenziato e incapace di creare un minimo di interesse.

Allo stesso modo l'uso del sonoro della parte anni settanta non convince pienamente, perché sono troppe le scorciatoie con cui vengono inseriti i dialoghi. Ancor meno riuscito è il finale, dove le due storie si incontrano: appare infatti come un vero e proprio controsenso ideologico cercare di risolvere due piani narrativi portati avanti fino a quel momento quasi esclusivamente attraverso le immagini, con la lettura di una lettera che ci spiega a parole, per filo e per segno, tutto ciò che abbiamo appena visto, supportata da immagini in stop motion veramente poco ispirate.

Ci appare quindi come una vera e propria occasione mancata questo adattamento del libro di Brian Selznick, autore dell'Hugo Cabret portato al cinema da Scorsese. Libro che trattava i due piani narrativi in maniera ben più interessante: uno, quello del 1927, sviluppato solo con immagini; l'altro, quello del 1977, portato avanti a parole. Due piani che si incontrano, si fondono, in un finale a fumetti. Sembrava una sceneggiatura pronta per essere trasposta al cinema senza troppi sforzi, ma evidentemente non tutti gli Hugo Cabret riescono col buco.

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