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R Recensione

8/10

My Fair Lady regia di George Cukor

Commedia
recensione di Leonardo Romano

Trasposizione dell'omonimo musical del 1956 di Alan Jay Lerner e Frederic Loewe, tratto a sua volta dall'opera Pigmalione di George Bernard Shaw.

Il professor Higgins (Rex Harrison), glottologo britannico di fama internazionale, scommette con l'amico Pickering (Wilfrid Hyde-White) di riuscire a trasformare la povera fioraia Eliza Doolittle (Audrey Hepburn) in una dama di alta classe, entro sei mesi.

Benchè sia stata l'Italia la patria del belcanto, è opinione comune che l'America abbia portato a vette di assoluta perfezione il musical, naturale evoluzione dell'operetta (a sua volta naturale evoluzione del melodramma).

In effetti My Fair Lady (già salutato a Broadway nel 1956 come il musical perfetto; complice anche l'interpretazione magistrale di Julie Andrews. Sì, proprio lei! La futura Mary Poppins) non sembra fare eccezione.

Comunque Hollywood sembrò apprezzare e ringraziò addirittura con 8 Oscar, fra cui quello per il miglior film.

George Cukor, optando per una estrema stilizzazione ed una palese artificiosità degli esterni (scelta che non piacque per nulla agli autori del musical, Lerner e Loewe, che avrebbero voluto che il film fosse girato proprio in loco), sembrò voler porre maggiormente l'attenzione sui personaggi piuttosto che sul fasto delle scenografie e dei costumi (peraltro notevole. Warner non badò a spese e il botteghino gli dette ragione): la guerra dei sessi fra l'incolta e vociante fioraia che si emancipa, anche socialmente (benché, ad un certo punto, al ritorno dal trionfale ballo all'ambasciata, affermi: ”Ne parlammo quella sera fuori dal teatro: vendo fiori, non vendo il mio corpo. Adesso che avete fatto di me una lady non posso vendere altro.”) e il misogino professor Higgins (quando Elisa dice che il colonnello Pickering tratta le fioraie come se fossero duchesse, il britannico insegnante di fonetica rivendica fieramente:”E io tratto le duchesse come se fossero fioraie!”) ha una profondità forse sconosciuta alla media dei musical americani.

Sostanzialmente Lerner e Loewe fanno un calco da Shaw che, come drammaturgo, non è quello che potremmo definire l'ultimo arrivato.

Una differenza notevole dal Pigmalione, però, c'è: il finale.

Nella commedia, Elisa ed Higgins lasciano che ognuno dei due sia abbandonato al proprio destino, mentre nel musical Elisa torna da un disperato Higgins che non sa darsi pace per l'abbandono: l'happy end, però, non scalfisce minimamente l'acre umorismo del buon George Bernard, salvaguardato dalla fisiologica melensaggine che affligge solitamente il musical, sia nella versione teatrale che in quella cinematografica (perfino nelle canzoni: non abbiamo solo i canonici numeri romantici, ma anche quelli sardonici come “With a little bit of luck” o “A hymn to him”).

Ritornando al film, Cukor è stato a volte sicuramente più spiritoso e arguto (basti pensare a Nata ieri), ma la raffinatezza e l'intelligenza che sa infondere ad ogni fotogramma del film è notevole. Verrebbe da dire, quasi prepotente.

Le interpretazioni, poi, sono da manuale.

Audrey Hepburn, benché doppiata nel canto dalla bravissima Marni Nixon (cosa che le fece addirittura perdere la candidatura agli Oscar), è magistrale non solo nella parte della lady (cosa che le veniva d'istinto: del resto, è stata da sempre considerata un modello d'eleganza) ma anche in quello della sguaiata fioraia.

Rex Harrison, premiato con un Oscar incontrovertibile, è un professor Higgins talmente ineccepibile che è umanamente impossibile immaginarsi un attore diverso da lui in quel ruolo. Harrison, se non fosse passato a miglior vita, potrebbe dire a ragione a chiunque avesse l'ardire di accostarsi alla parte: “Apres moi la deluge”.

Nei ruoli secondari (ma l'aggettivo è davvero improprio) è da segnalare la vecchia volpe del vaudeville, Stanley Holloway (già presente nella versione di Broadway del 1956), nei panni dell'umile spazzino Alfred P. Dolittle, “il più originale moralista d'Inghilterra” (arriva a vendere ad Higgins la figlia Elisa per 5 sterline. Vuol mettere a tacere le malelingue del vicinato con un formale atto di compravendita o vuole andarsele a bere in una taverna? Non è dato sapere. Inoltre, il tutto è condotto con una tale arguzia che gli avremmo perdonato qualsiasi nefandezza). Holloway è di una greve carnalità (supportata,cosa non da poco, anche da un corpaccione tarchiato) e al tempo stesso di una leggerezza tale da risultare quasi sbalorditiva.

Per quanto riguarda le canzoni... Che t' 'o dico a ffà?

Sono talmente orecchiabili, talmente romantiche, alcune talmente argute e spiritose (cosa alquanto insolita per un musical, visto di solito si opta per una sola chiave: o solo romantica o solo ironica e così via), insomma, talmente perfette da far parte della nostra memoria collettiva.

Quante volte è capitato di vedere in televisione qualche soubrettina di quart'ordine prodursi sciaguratamente in qualche rabberciata esecuzione di “Avrei danzato ancor” per ribadire il proprio talento a mandolino? Segno che questo musical, ovviamente nella sua versione cinematografica (che è in sostanza quella che ha lo ha reso noto a livello interplanetario), fa parte del nostro DNA. E nessuno, nel mondo civilizzato, può prescinderne.

E poi “My Fair Lady” ci commuove un po' perché ci fa rimpiangere una Hollywood, smaterializzatasi purtroppo nello Stargate, capace di intrattenere con estremo buon gusto, ma anche mettendo in moto il cervello. Il che non sarebbe poco, oggi.

Anzi, ad avercene!...

Noterete una cosa: poco sopra ho scritto “Avrei danzato ancor” invece di “I could have danced all night”.

Perchè, all'epoca, poteva accadere che nei musical fossero doppiate anche le canzoni, per far da volano agli incassi (il primo che capì astutamente questa apparente ovvietà fu Disney nel 1937 con Biancaneve e i sette nani. E n'ebbe ben donde!).

E così avvenne anche per “My fair lady”, per il quale fu approntata una versione italiana strapazzatissima dalla critica e da tutti i dizionari dei film possibili e immaginabili.

Assolutamente a sproposito, però.

Non solo perché far parlare Elisa (e non Eliza, il vero nome della protagonista. In effetti questo è un cambiamento insensato) in pugliese (per bocca di una superlativa Maria Pia Di Meo, vero mostro di bravura) è l'unico modo per rendere in modo comprensibile ad un pubblico non anglofono l'effetto che ha per un inglese l'accento cockney (nel doppiaggio degli anni '70 di “Pigmalione”, film degli Anni '30 con Leslie Howard, non si optò per una scelta del genere ed Elisa parla con una levigata dizione italiana e ci si chiede: “Ma perché deve imparare a parlar bene se già lo fa?” e il film non ha alcuna ragione di essere), ma anche perché il doppiaggio musicale delle canzoni è di prim'ordine, sia tecnicamente (allora, i fuori sync de “Il fantasma dell'Opera” di Schumacher erano inconcepibili: pena la crocifissione in sala mensa) che artisticamente.

L'unica incomprensibile scelta del doppiaggio italiano è questa: nella versione originale del film, tutti i personaggi che vivono nei bassifondi si esprimono in dialetto. Nella versione italiana, lo fa solo Elisa. Forse l'intenzione era quella di esaltarne ulteriormente la rozzezza e l'ignoranza. Scelta anche legittima,ma non corretta né tanto meno plausibile. Ma ormai quel che è fatto è fatto.

Nando Gazzolo, con la sua voce suadente da perenne gentleman del teatro e del romanzo sceneggiato, supera perfino Rex Harrison. Di sicuro, lo batte nel canto: mentre l'attore inglese fa il “rapper” rauco e belante, Gazzolo canta con gran perizia e fila dritto come un fuso (Kezich, in un suo libro, si lamentava di sentir cantare lui invece di Rex Harrison. Il povero Tullio doveva avere seri problemi di sordità. O almeno una percezione del suono tutta sua).

Luigi Pavese, grande caratterista del cinema italiano (era spesso il burbero prevaricatore in tanti film di Totò, messo sempre sotto scacco dal principe della risata: era lo “spogliatoio” di Totòtruffa '62) dà il suo vocione a Stanley Holloway con grande maestria (ma il baritonone che lo doppia nel canto è Otello Felici. Peccato, perché Pavese era anch'egli un baritonone di talento).

Gianni Marzocchi, che davanti al leggio recita e canta nei panni di Freddie Eynsford-Hill,è molto bravo,ma non si può considerare la scelta più felice: infatti nel canto ci sarebbe voluto un tenore puro (come Bill Shirley, che doppiò l'attore Jeremy Brett; anche se questo non dimidia la sua lodevole prestazione, visto che canta con una levigatezza ed un'intonazione praticamente perfetta).

Ma la vera star, la vera attrattiva è colei che non tralascia di rendere in italiano ogni vezzo di Marni Nixon,senza appiattire la propria interpretazione su una comoda levigatezza formale che le veniva naturale, in virtù d'un'angelica voce: la straordinaria Tina Centi, l'imperatrice delle ghost singer (forse nemmeno la suddetta Nixon potrebbe vantare la sua versatilità).

Basti l'esempio di “Lo vedrai” (“Just you wait”): nella stessa canzone, la Centi dà ad Elisa una voce nasale e sgraziata, ma anche immacolata e purissima.

Questo si chiama sovrumano talento (cosa che nel nostro doppiaggio, infestato dai talents fuoriusciti dai reality, si è forse perso irrimediabilmente).

Anche l'adattamento dei testi, degli scaltri veterani Amurri e Pallavicini, non è affatto disprezzabile e riesce quasi sempre a rendere felicemente l'arguzia di Alan Jay Lerner (anche se il “chicchirichì” finale in “Lo vedrai” fa veramente ridere i polli. Nel vero senso della parola!). Anzi,in alcuni frangenti la loro versione è migliore dell'originale (in “Avrei danzato ancor” i due variano con sapiente mestiere, specie nel finale, un testo – sì,notevole – ma forse un po' ripetitivo).

Ritenere, però, che un doppiaggio o un adattamento sciupino irrimediabilmente un film perché ne stravolge il senso (ma è umanamente possibile tradurre una canzone prescindendo dalla metrica? Risposta: NO!!!), come del resto illudersi che possa renderne ogni minimo dettaglio sono due ridicoli dogmi alquanto speciosi.

Nel caso di My Fair Lady, la perizia artistica e tecnica c'è e si vede. Anzi, si sente!...

Però la vexata quaestio “doppiaggio sì, doppiaggio no” è vecchia quanto l'invenzione del sonoro e non troverà mai una soluzione: esisteranno sempre i colpevolisti e gli innocentisti a priori, da cui noi – spettatori medi, amanti del buon cinema – dovremmo cercare di tutelarci con un po' di buon senso (e di orecchio).

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