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R Recensione

8/10

La cinquième saison regia di Peter Brosens

Drammatico
recensione di Erika Sdravato

Verrà un tempo in cui la primavera non ci sarà più e dovremo aspettare e aspettare, crogiolandoci in un’attesa snervante, fino a quando il potere della Natura ordinerà per noi una quinta stagione.

La richiesta, a rigor dei fatti, è quella di andare oltre. L’istanza tutt’altro che supplichevole di questa meravigliosa pellicola è senza dubbio quella di spingere il pubblico – sia inteso come singolo spettatore che forse, soprattutto, come comunità pensante – a protrarsi in avanti. Ritrovandosi addirittura nella posizione di chiedere ad un gallo accovacciato su un tavolo di cantare. Anomalo, no? Beh, non più di tanto, considerando che il prodotto al quale si assiste basa le proprie fondamenta filmiche su motivazioni tanto esteticamente irreprensibili quanto simbolicamente motivate ma bizzarre.

Le criticità dialogiche del parlato trovano eloquenti spiegazioni nel momento in cui si avvantaggiano della lucidità scenica catturata dalle quattro mani del duo Brosens e Woodworth, abilissimi osservatori e conquistatori di luci visive ed ombre (mal)celate del nostro Io. Ego che deve combattere contro la Natura, contro i propri simili, contro le proprie volontà e contro i giustizieri della collettività - come i due registi ci mostrano, diventando addirittura nipoti di Pirandello non appena fanno indossare delle maschere ai loro personaggi, de-formandone il loro aspetto in subdola coscienza; e guidandoci poi verso inquadrature splendide a livello fotografico (l’inseguimento del giovane verso la ragazza merita un particolare cenno di piacere).

Al tempo stesso, urge sì la volontà di una seconda (e perché no, terza – se necessario) visione del film per motivi che definirei di completa “decrittazione di simbolismi”, numerosissimi (un po’ come io ho fatto per questo mio commento), quasi sovrabbondanti, che tanto mi hanno fatto pensare al Bauldelaire dei primissimi versi di “Corrispondenze“ (da Le fleur du mal: È un tempio la Natura, dove a volte parole /escono confuse da viventi pilastri; / e l'uomo l'attraversa tra foreste di simboli / che gli lanciano occhiate familiari).

In conclusione, il microcosmo che viene quindi a crearsi riflette il villaggio atavico che vive di terra e animali da pascolo, in cui il dolente lavoratore dei campi si flette per esaminare il raccolto o peggio – come qui – per vedere che dal suolo non crescerà più nulla. A meno che… noi non impareremo a muoverci con le stagioni. Più di quattro, s’intende.

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