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5/10

Qualcuno da Amare regia di Abbas Kiarostami

Drammatico
recensione di Alessandro Pascale & Fulvia Massimi

Akiko, giovane studentessa di Tokyo, viene mandata a passare la notte da un anziano professore in pensione dai modi gentili e raffinati. Presto però si accavalleranno contrattempi e problemi vari, tra cui l'intrusione del gelosissimo ragazzo di Akiko.

 Alessandro Pascale (Voto 4):

Qualcuno da amare è uno di quei film che all'inizio ti affascina, lasciandoti spiazzato. Poi la curiosità inizia a vacillare e scemare, messa a dura prova da una sceneggiatura apparentemente insignificante e vacua. Quando la fine è vicina stai sbuffando già da mezz'ora, contorcendoti sulla poltrona nella speranza che la tortura duri ancora poco. Quando il “the end” si materializza dopo un rumoroso colpo di scena (se così si può dire) sei sorpreso. Insoddisfatto per la lentezza asfissiante di un'opera artistica che nasconde significati simbolici e artistici da trovare, ma sul momento pensi solo a quanto sia stata macchinosa e prolissa. Allontanandosi dal cinema si cerca di trovare il senso misterioso celato nelle interminabili inquadrature fisse, nella nevrosi permanente della giovane Akiko (la bravissima Rin Takanashi) afflitta da notevoli problemi socio-psicologici, nel contraltare di un vecchietto, Takashi (Tadashi Okuno), che rappresenta il suo completo opposto, tanto pacifico, còlto ed apparentemente estraneo da ogni sorta di problema. C'è anche il fidanzato (Noriaki, ossia Ryo Kase) della giovane, è vero, ad incarnare il classico tema del triangolo sentimentale, apparentemente unico vero motore della storia. Eppure c'è di più. Quella di Kiarostami appare in realtà una silenziosa ma serrata denuncia, che lascia l'amaro in bocca per la spietatezza con cui è pronunciata: si denuncia una società in cui una ragazzina è costretta a prostituirsi per poter coltivare (senza molto profitto peraltro) i suoi studi, subendo perfino il tormento di non poter salutare la propria anziana nonna venuta a trovarla in città (una delle scene più toccanti del film). Si denuncia la cultura patriarcale maschilista, per cui il ragazzo della giovane non esita a riversare la propria gelosia e la propria possessività con la violenza manesca. Ma soprattutto, ed è questa forse la vera chiave di lettura dell'opera, si denuncia l'immoralità del vecchio Takashi. Qualcuno da amare, nella sua sostanzialità, è un atto d'accusa contro la violazione della moralità compiuta in un attimo di debolezza da un anziano e stimato professore universitario ormai in pensione. E' un uomo pacifico Takashi. Il classico nonno zen, gentile e saggio, che nonostante sia rimasto vedovo ha una famiglia numerosa che lo tampina per assicurarsi che stia bene e per chiedergli un aiuto nelle più varie incombenze “intellettuali”. Non manca poi il lavoro culminato in un libro, che lo mantiene nell'attività più frenetica.

Cosa fa Takashi? Un giorno organizza la visita di una “dama di compagnia” a casa propria. Perchè lo fa? Forse si sente solo. Forse ha bisogno di “qualcuno da amare”... qualcuno che sappia ritrasmettergli per una sera emozioni ormai scordate da tempo.

Niente però andrà come aveva pensato e gli inconvenienti si moltiplicano esponenzialmente. Eppure il vecchio Takashi non si scompone. I suoi riti quotidiani, la sua pazienza, la sua sapienza non rimangono turbati né infastiditi dagli eventi. Il suo sorriso e la sua disponibilità restano gli stessi. Arriva invece ad affezionarsi troppo alla ragazza, prendendo a cuore il suo destino, con un atteggiamento paterno che lascia allo spettatore il dubbio di una promiscuità sessuale mai totalmente esplicitata.

Qui entra in azione la furia di Kiarostami, a marcare l'inaccettabilità di questo percorso. Qualcosa si è rotto. Si è violato qualcosa di non scritto. Takashi non può passarla franca. Takashi deve pagare. L'ordine della sua vita, così perfetto nella sua maschera perbenista, deve essere infranto totalmente. Così si spiega il finale, con cui una pietra manda in frantumi una sua finestra di casa, marcando simbolicamente la rottura dell'intimo ordine domestico della sua vita. C'è in questo finale una condanna radicale e violenta, che racchiude forse la volontà di Kiarostami di smascherare certe ipocrisie della società borghese, o forse di autopunirsi per qualche proprio “peccato” personale, trasferendo, freudianamente parlando, sullo stesso Takashi la propria stessa immagine.

Tutta questa descrizione semiotica potrebbe dare l'idea di un film interessante e artisticamente valido. In realtà Qualcuno da amare è un'opera noiosa. Terribilmente lenta e per lunghi tratti inconcludente. Le uniche sequenze davvero rilevanti da salvare sono la scena d'apertura, ossia il dialogo nel caffè, e la parte già descritta in cui Akiko, obbligata a stare su un taxi, fa fare due giri attorno ad una rotonda per poter vedere almeno da lontano la propria nonnina.

La piattezza del soggetto, della sceneggiatura e in un buona misura anche di una statica regia rendono Qualcuno da amare un film buono per i soli incalliti fan di Kiarostami. A tutti gli altri si consiglia di volgere lo sguardo altrove.

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Fulvia Massimi (voto 6):

A ridosso del 66esimo Festival di Cannes - al via il quindici maggio prossimo - arriva nelle sale italiane, distribuito dalla Lucky Red di Occhipinti, l'opera ultima del poliedrico Abbas Kiarostami, in lizza per la Palma d'oro nella passata edizione della kermesse francese, di cui il regista è ospite gradito fin dai primi anni '90 (con Sotto gli ulivi, 1994). Ambientato nella capitale nipponica per esigenze di "esilio forzato", Qualcuno da amare recupera fin dalla titolazione originale (Like someone in love) le riflessioni post-moderniste sullo statuto incerto del reale e dell'apparente, già affrontate dal cineasta iraniano nel precedente Copia Conforme e qui nuovamente declinate in senso sentimentale, seppur senza alcuna complessità narrativa.

Una trama "decisamente esile", ma sarebbe il caso di dire "pressoché inesistente", inquadra poco meno di ventiquattr'ore nella vita di una giovane prostituta giapponese, che lavora come accompagnatrice per pagarsi gli studi e sembra trovare consolazione, o liberazione, dalle pressioni del fidanzato-quasi-marito nelle tenere attenzioni di un professore di sociologia in pensione, forse in cerca di un sostituto per la figlia assente. La mancanza di drammi effettivi, almeno fino alle battute conclusive, impedisce all'intreccio di assumere la forma di una vera e propria tragedia contemporanea, di cui il film rielabora tuttavia, pur con qualche licenza "poetica", le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione.

Inquadrature lunghissime che, non fosse per l'inserimento del campo-controcampo, andrebbero considerate a tutti gli effetti piani-sequenza giustapposti alla Hitchcock di Nodo alla gola, colgono i personaggi all'interno di macro-sequenze temporali (soltanto la scena d'apertura dura 20') e macro-ambienti spaziali (il bar, il taxi, la casa del professore, la macchina) che diluiscono e schematizzano un racconto già di per sé ridotto all'osso, nel quale perfino la dialettica - sistema di comunicazione privilegiato tra i personaggi - si limita alla chiacchiera contingente o, si spera, volutamente banale.

I rapporti sentimentali, perno centrale della pellicola, si articolano lungo la dicotomia matrimonio-"libertà", e i problemi generati dall'incomprensione o dal necessario riserbo vengono liquidati con un pilatesco "que sera, sera" (con annessa esibizione canora). La tensione risolutiva tipica del dramma resta sospesa, mai soddisfatta, neppure nel finale ermetico che, come scrive giustamente Mereghetti, «assegna a un sasso che rompe all'improvviso una finestra il valore simbolico (ma non troppo) dell'irruzione della realtà nella vita dei personaggi». Tutto scorre, in un flusso di immagini eracliteo il cui ritmo consente tuttavia di parlare solo impropriamente di "fluidità".

All'iniziale lentezza delle immagini e dell'incedere degli eventi - congelati nella disposizione paratattica di azioni che fanno procedere la narrazione soltanto del minimo indispensabile, quasi in tempo reale - si accosta infatti un progressivo scollamento dai tempi dilatati degli inizi, e perfino le distanze geografiche sembrano accorciarsi inspiegabilmente (i tragitti del professore dal centro della città a casa sono stranamente rapidi, considerate le premesse). Nulla è come appare, specialmente ciò cui lo spettatore non è in grado di assistere personalmente: al fuori campo e al suo contenuto misterioso e straniante è assegnato un valore superiore rispetto al quadro filmico, al pari di un cinema disturbante com'è quello di Michael Haneke.

L'alternanza di macchina da presa e camera digitale esplicita il dialogo instaurato dal cinema di  Kiarostami tra l'indexicalità (fittizia) dello stile documentaristico e la finzionalità dell'universo cinematografico come replica mediata del reale. Negli scenari colti dalla nitida fotografia di Katsumi Yanagijima (il cast tecnico è quasi interamente giapponese) la realtà è solo un susseguirsi di rituali già visti, gesti abitudinari e frasi scontate, che offrono un quadro stereotipato della vita, una recita a carte scoperte su cui d'altronde l'intero film si fonda, nel tentativo di rendere esplicito il crollo di uno dei nuclei dogmatici del modernismo secondo Fredric Jameson: il binomio apparenza-realtà.

La scelta della location giapponese assolve dunque ad una doppia funzione: da un lato fornisce la perfetta ambientazione culturale per una pellicola che riflette sulla riservatezza, o per meglio dire sui segreti che potrebbero incrinare un rapporto di coppia qualora uscissero dalle quattro mura domestiche (degli altri); dall'altro consente al regista la messa in scena del discorso post-moderno sulla superficie, ovvero sull'assenza di profondità che informa la società odierna.

Il viaggio in macchina di Akiko dal centro alla periferia di Tokyo non consente infatti di cogliere la visione d'insieme dello spazio urbano, successivamente complicata dallo straniamento delle distanze percorse. Il soggetto si trasforma così in un flâneur incompiuto, che del passante baudelairiano ha solo lo sguardo, ma non la facoltà di percorrere fisicamente le strade metropolitane, e che, esattamente come il protagonista dei versi del poeta, coglie solo un lampo visivo della persona amata (la nonna, per Akiko), che forse non rivedrà mai più. Il mondo esterno si riduce così a sfondo, mentre nell'abitacolo automobilistico (mezzo d'ambientazione privilegiato del cinema di Kiarostami) si consuma una realtà paradossalmente più vera, per quanto priva di una destinazione altra se non quella dettata dalle esigenze della giornata.

E di nessuna profondità sono d'altronde dotati anche i tre attori principali, ai quali Kiarostami assegna il ruolo di figure stereotipate - Lui, Lei, l'Altro - in un dramma privo di centro e di senso, inconcludente nelle premesse come nelle conclusioni, e che affida ad un destino incerto, incomprensibile, la potenziale risoluzione di ciò che i personaggi non sono capaci di attuare. Si rimane freddi e distaccati dalle sorti del povero professore pavido, incapace di reagire all'aggressività del giovane collerico - caricatura del cornuto immaginario (ma nemmeno troppo) - così come di donare spessore o identità alla bellezza vuota di Akiko, replica della figura di un quadro, donna somigliante a tante altre, mai davvero se stessa, se non dopo la violazione del suo corpo.

Tutto accade, lentamente e senza un perché. Si spera in uno strappo violento che cambi le cose, ma nulla sopraggiunge, se non alla fine, lasciando attoniti e con l'amaro in bocca, senza spiegazioni. Il solo guizzo di vitalità si accende, e si spegne, nella loquacità pettegola di una vicina, mentre la riflessione richiesta allo spettatore si trasforma in un esercizio virtuoso, fine a se stesso, che non coglie nel segno, e che affianca all'evidente consapevolezza autoriale del regista un vuoto o un'inefficacia di senso, l'interrogativo spontaneo sulla necessità di un film di cui non si riesce davvero a comprendere il motivo.

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