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R Recensione

7/10

Visitor Q regia di Takashi Miike

Grottesco
recensione di Giacomo Festi

La storia narra della inquietanti e assurde vicende in cui verrà  coinvolta la famiglia Yamazaki, forse uno dei nuclei familiari più disastrati della settima arte. Il figlio è vittima di un gruppo di bulli e si sfoga a casa picchiando la madre, la quale scappa alle quotidiane insoddisfazioni drogandosi di nascosto. Il marito invece è un giornalista televisivo frustrato che vuole fare un particolarissimo servizio e che intanto ha una relazione incestuosa con la figlia, che è andata a vivere da sola e si mantiene prostituendosi. Le cose però cambiano quando il marito viene attaccato da un giovane misterioso che lo colpisce in testa con un sasso, venendo poi a vivere addirittura a casa sua.

Se oggi il nome di Takashi Miike può dirsi abbastanza conosciuto nel mondo (specie dopo la positiva accoglienza avuta dal suo 13 assassini nel 2010) lo stesso non poteva dirsi dodici anni fa, nel 2001, quando questo film venne trasmesso sui cubi catodici giapponesi e successivamente nel mondo grazie a un non indifferente uso della Rete. Nonostante la sua produzione che prevedeva una media di tre film all'anno Miike non era ancora passato alla storia come il regista più prolifico del mondo, ma negli Anni Zero la sua celebrità  subì un'impennata grazie a diversi titoli. Certo, c'era stato un certo Audition che aveva saputo scuotere abbastanza violentemente una ridotta parte del globo, ma è stato proprio questo suo trentottesimo film che gli ha permesso di decollare come superstar della settima arte. Tutto per merito del progetto televisivo Love Cinema, che prevedeva una serie di film per la televisione girati interamente in digitale e dal budget ridottissimo - per questa pellicola sui vocifera che siano stati spesi solo settantamila dollari.

E' qualcosa di strano il dover giudicare e analizzare un film come questo, perchè non è una visione facile. C'è innanzitutto il piano mentale e poi quello psicologico, entrambi decisamente prepotenti e complicati da sopportare, oltre che una certa reticenza che può spingere la maggior parte del pubblico a proseguire la visione già dopo le prime nefandezze. Il gestire storie di questo tipo infatti non è cosa semplice, perchè si può finire con un autocompiacimento gratuito e davvero sconsiderato, finendo per perdere un qualsivoglia interesse artistico o di denuncia per scadere nella mera pornografia. Non si può quindi non ammettere che in certi parti, specie nell'assurdo svolgersi degli eventi finali, il regista nipponico calchi eccessivamente il pedale, ma il discorso finale che ne esce è solido e ben strutturato. Quella che Miike e lo sceneggiatore Itaru Era vogliono affrontare è la disanima della famiglia nipponica media, relegata ancora oggi sotto un pesante velo di apparenza e restrizioni gerarchiche. Non è un caso che il soggetto più preso di mira sia il padre, che apre le scene consumando un rapporto incestuoso con la figlia, segno di come secondo anche l'attuale credenza sia proprio un genitore non realizzato a rendere malsana la famiglia. Da lì in poi, con una lentezza mai eccessiva ma dagli esiti insostenibili, vediamo come tutto si ripercuote sul nucleo famigliare fino all'arrivo del giovane muto, forse il visitatore del titolo. Un visitatore che, complice e alle volte partecipe, finirà  per far esplodere tutte le ansie e le rabbie represse dei quattro personaggi, portando tutto alle estreme conseguenze. Quello che viene ritratto nel film quindi è un Giappone sporco e ipocrita, represso dalle proprie stesse regole oramai obsolete e pronto a scatenare tutto quello che una quotidiana apparenza impedisce di esercitare al cittadino medio - chi conosce bene la società  nipponica sa bene di cosa sto parlando. E non c'è da stupirsi quindi se dinanzi a tutti gli orrori perpetuati da questo piccolo gruppo di individui disperati, mostrati in tutto il loro squallore, si decida di censurare con una non indifferente ironia i genitali degli attori quando vengono mostrati. «Non è un mistero della vita, è merda!» dice il padre negli ultimi folli minuti. Ed è questa la frase che riassume in pieno tutti gli intenti della pellicola. Una pellicola dura ed esagerata che non tutti potranno sopportare. Forse troppo esagerata (è straniante pensare che in origine doveva essere un progetto televisivo), ed in alcuni punti sembra più intenta a shockare lo spettatore a tutti i costi piuttosto che a veicolare una discussione lineare e chiara a tutti. Questo fa parte della poetica di Miike, quindi anche quando si guarda il suo film meno autoriale bisogna essere pronti a tutto. E chissà  se, sempre in quello stesso anno, il pubblico era pronto ad altre follie come i film seguenti che vennero, quali Ichi the Killer e The Happyness of Katakuris...

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