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9/10

American Psycho regia di Mary Harron

Thriller
recensione di Alessandro Pascale

New York, 1987: Patrick Bateman è uno yuppie ricco e rinomato nell'ambiente di Wall Street, è un dirigente della società finanziaria del padre che si occupa di fusioni e acquisizioni. Nella vita privata Patrick è una persona puntigliosa e precisa, che dedica molto tempo alla cura della propria persona. Di giorno vive una vita basata su pranzi di lavoro, locali alla moda e riunioni tra amici, in tipica rappresentanza dell'alta classe sociale cui egli appartiene. Questo modo d'essere pacato esplode invece di notte, facendo emergere nel protagonista l'assoluto disprezzo degli emarginati, l'invidia nei confronti dei colleghi, e l'aridità affettiva verso le donne, fino a trasformarlo in un serial killer che conserva i corpi, o loro parti, in casa.

American Psycho è un cult prima di tutto come romanzo: capolavoro del 1991 targato Bret Easton Ellis che mette a fuoco la vita violenta e sfrenata di Patrick Bateman, giovane yuppie sulla cresta dell'onda. Grosso dirigente di Wall Street, “figlio di papà”, milionario, elegante, bello, in posizione di potere e di successo, Patrick (impersonato da un impeccabile Christian Bale) non riesce però ad essere felice se non quando dà libero sfogo ai propri desideri e pulsioni più violenti e sanguinari, accanendosi in particolar modo sul gentil sesso. Gran parte delle sue vittime sono prostitute naturalmente, nella logica della mercificazione della donna. Perchè Patrick è un uomo che non deve chiedere mai, e se per caso deve farlo, non ha che da sventolare una mazzetta di banconote per ottenere i servigi del caso.

Eppure nonostante lo straripante potere e la possibilità di avere una vita migliore del 99% delle persone americane Patrick non riesce a godere del proprio potere e del lusso che lo circonda. Sepolto e circondato dai beni materiali ha perso ogni capacità di goderne per il loro valore d'uso, e in preda ad una malattia schizofrenica sente il bisogno non solo di essere (e soprattutto apparire) il migliore tra tutti i colleghi (e in generale della “bella società”), ma anche di creare un clima da “culto della personalità”, punendo chiunque metta in discussione sia pur indirettamente questa sua divinità autoreferenziale. Senza peraltro che tutto ciò determini in lui una genuina e salutare felicità e realizzazione personale, ma permettendo solo di tenere a bada le ansie accumulantesi nel caso di intoppi alla routine quotidiana.

In realtà il motivo di vero interesse dell'opera non è l'esasperazione della violenza che ne emerge (anzi, il film in sé è molto più “moderato” del libro), quanto il carattere prettamente politico e accusatorio verso una società ben precisa: siamo infatti a New York nel 1987 e il quadro di riferimento è quello dell'alta finanza di Wall Street. Il gotha del mondo.

Il periodo storico è quello della reaganomics, che ha dato libero sfogo alle pulsioni più estremiste e radicali della teoria economica del liberismo. Ne è seguita una lotta durissima ai sindacati, una straripante libertà del settore finanziario (con conseguenti speculazioni borsistiche: non per niente il 1987 è l'anno di un'importante crisi economica) e nel complesso una maggiore polarizzazione della ricchezza, determinando un aumento del distacco tra ricchi e poveri. E' insomma l'epoca del trionfo del denaro. L'epoca in cui la legge della giungla sancisce la sopravvivenza dei più forti, andando ad intaccare i concetti di welfare state, uguaglianza e libertà.

Nella società caricaturale (ma non così lontana dalla realtà del tempo) dipinta da Ellis chi appartiene all'élite che controlla di fatto il Paese può permettersi di fare tutto quel che desidera senza doversi preoccupare non solo di essere scoperto, ma nemmeno turbato o sospettato. Nel meraviglioso mondo di American Psycho puoi trascinare un cadavere lasciando scie di sangue sul pavimento senza che nessuno lo noti. Puoi prendere per il culo un detective senza che questo ne accorga nemmeno inconsciamente. Puoi auto-denunciarti e chiedere di essere rinchiuso ed avere la certezza che qualcuno farà in modo che non ti succeda nulla (come non pensare ad un parallelismo con il finale di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Petri?).

È questa la denuncia di Ellis di un sistema onnipotente che per certi aspetti ricorda il totalitarismo orwelliano ritratto da Gilliam in Brazil. Opera di cui si riprende per certi versi anche il finale, che lascia un amaro dubbio sul confine tra fantasia psichica e realtà macabra, lasciando però optare nettamente per la seconda. È questa quindi l'immagine sconvolgente costruita da Ellis: un'America violenta e totalitaria, trionfo di un'aristocrazia incapace di fare gli interessi pubblici e personali, troppo intenta a specchiarsi e creare invidie su chi abbia il biglietto da visita più splendente e curato.

Due parole anche sulla regia di Mary Harron, regista solitamente dedita con opere orientate “al femminile” (suoi Ho sparato a Andy Warhol e La scandalosa vita di Bettie Page) che conferma una certa attenzione per la psicologia dei personaggi rosa, riuscendo ciononostante a gestire con maestria la figura edonistica e vanesia di Bateman. Splendida la fotografia, perfetta la durata nella sua concisione e la cura di ritmo e tempi. Ultima nota sulle musiche: quelle usate da Bateman prima di compiere i suoi omicidi rappresentano lo specchio dell'evanescenza contenutistica che colpisce gli anni '80 commerciali ultra-patinati. Canzoni che rispecchiano lo stesso protagonista: effervescenti e iper-curate fuori, vuote e prive di contenuto dentro. Ci voleva classe anche per rendere questa similitudine, e non poteva non esserci lo zampino di un mostro sacro della musica come John Cale.

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