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7/10

Split regia di M. Night Shyamalan

Thriller
recensione di Alessandro Giovannini

3 ragazze  vengono rapite e segregate in un edificio senza uscite da Kevin, un pericoloso individuo affetto da disturbo della personalità.

Ammetto che durante i primi minuti di visione, non riponevo molte speranze nel nuovo film di M. Night Shyamalan: il gruppo di malcapitati rinchiuso dal sadico pazzo è un incipit ormai sovrabbondante nei thriller/horror del nuovo millennio, un'ampia casistica che va da episodi riusciti (Saw - L'enigmista, 2004) a robaccia da dimenticare (Captivity, 2007). Ero altresì fortemente perplesso circa le motivazioni che potessero avere spinto un regista solitamente pieno di immaginazione come Shyamalan a cimentarsi con un filone così settoriale e canonico. Fortunatamente l'impronta dell'autore non tarda ad emergere, piegando il seppur prevedibile canovaccio alle sue proprie esigenze narratologico-tematiche. Distanziandosi dallo psycho-thriller The Visit, che rivisitava il filone della home invasion con un impianto che rimaneva generalmente ancorato al realismo e alla plausibilità, stavolta Shyamalan, pur prendendo spunto da casi clinici e fatti di cronaca (il celebre caso di Billy Millighan) gioca sul confine a lui congeniale tra realtà scientifica e soprannaturale, instillando il dubbio in primo luogo al personaggio della dottoressa che ha in cura Kevin, la quale è la prima a manifestare stupore e meraviglia di fronte all'eccezionale caso clinico e ad attribuirgli valenze quasi messianiche: per lei l'esistenza di Kevin è la prova dell'esistenza di piani superiori di conoscenza che ancora non sono stati raggiunti dall'essere umano, e che potrebbero forse elevarlo a qualcosa di superiore. Non è difficile scorgere in questo personaggio un riflesso del regista stesso, che guarda caso si ritaglia un cameo nella parte di un suo assistente.

Che questa chiave di lettura accenda la fantasia di parte del pubblico o infastidisca il raziocinio di altri, è questione di secondaria importanza: il grosso del film non sta infatti qui e personalmente lo ritengo un peccato, perchè è un tema che sarebbe stato affascinante sviluppare ulteriormente. Invece Split rimane sostanzialmente un film di genere, incentrato sul rapporto vittima-carnefici (plurale obbligatorio) e di conseguenza sul lavoro di due attori: James McAvoy e Anya Taylor-Joy. Il primo è la vera ragion d'essere del film, dato che Split è essenzialmente un tour de force recitativo di McAvoy, il quale riesce a caratterizzare l'alternarsi delle diverse personalità, a volte addirittura all'interno di una stessa scena e di una stessa inquadratura, in modo davvero convincente e senza mai esagerare in esibizionismo, ma riuscendo sempre a mantenersi sufficientemente controllato da non cadere nel macchiettismo. Eccolo regredire improvvisamente a bambino di 9 anni da rigida signora attempata che era, o passare da timido ragazzo introverso a bestiale macchina omicida, per poi lanciarsi in ruoli estremi come personalità menzognere che fingono di essere altre... un esercizio di bravura che spero verrà premiato adeguatamente nelle sedi opportune (e che nessun doppiaggio potrà mai restituire: vedetelo in lingua originale). D'altro canto, abbiamo una più remissiva interpretazione della Taylor-Joy, cui spetta il compito abbastanza ingrato di vittima, dunque un ruolo che restringe le proprie possibilità espressive ad una gamma piuttosto convenzionale di espressioni, prossemica eccetera. Un ruolo ingrato forse, ma di certo non malamente interpretato e capace di mostrare, nei pochi anfratti lasciati liberi dal titanico McAvoy, di sviluppare in modo convincente il proprio personaggio.

Split è insomma prima di tutto un film d'attori, con un terzo protagonista inanimato che è la scenografia: il set è stato realizzato in modo molto efficace, sia a restituire il senso di claustrofobia (ci si sente perennemente schiacchiati dalla location opprimente, malgrado la forte orizzontalità delle inquadrature, un po' come accade in The Hateful Eight), sia per l'organizzazione luministico-cromatica dello stesso (colori caldi dalla tinta leggermente acida), che resituisce l'idea di un ambiente polveroso, privo di ossigeno. Se è vero che il punto debole dell'operazione finisce per essere la sceneggiatura (sviluppo canonico, tensione bassa, insoddisfacente finale aperto), cosa grave per quello che nelle intenzioni dovrebbe essere un thriller, si può finire col chiudere un occhio nei confronti della trama in sè e per sè e godersi il film per quello che ha da dire, ancor prima del come lo dice: il duello piscologico tra la protagonista e i suoi numerosi antagonisti offre molteplici spunti di riflessione, su cui non mi esprimo per non rovinare il piacere della visione. Se cercate un modo intrigante di aprire la vostra stagione di visioni cinematografiche, questo è un ottimo inizio.

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