Django Unchained regia di Quentin Tarantino
WesternDjango (Jamie Foxx) è uno schiavo negli Stati Uniti d'America pre-Guerra Civile, liberato dal cacciatore di taglie di origine tedesca, il dott. King Schultz (Christoph Waltz) affinché possa aiutarlo a ritrovare le tracce dei fratelli Brittle, noti assassini, per poterne riscuotere la taglia. Il successo dell'operazione induce Schultz ad aiutare il suo nuovo partner a trovare e salvare la moglie Broomhilda, nelle grinfie dello schiavista Calvin Candie (Leonardo DiCaprio).
John Cawelti nel suo studio sul film western anni ’60 e il postmodernismo, individua quattro possibili declinazioni del genere: la prima, quella comico-parodica, punta a rovesciare il modello convenzionale accostandolo a contesti esagerati o incongrui al punto dal renderli comici, la seconda è quella del culto nostalgico, in cui si cerca di ricreare un’atmosfera di un tempo passato, che si sa perduto. Seguono quella della demitizzazione e della riaffermazione del mito per il mito. Cosa succede quando un grande regista quale Quentin Tarantino decide di seguire le orme di due grandi Sergio del cinema italiano (Leone e Corbucci, ça va sans dire), mescolando tutte le definizioni di Cawelti, trasformando un soggetto prettamente americano, riguardante la schiavitù e la guerra civile, in un vero e proprio spaghetti western?
Nasce Django Unchained. Sud degli Stati Uniti d’America, due anni prima della guerra di secessione. Il dottor King Schultz (interpretato da Christoph Waltz, già vincitore di un premio Oscar per la sua interpretazione del colonnello nazista Hans Landa in Bastardi senza gloria), bounty killer celato sotto la maschera di dentista teutonico, libera dalla schiavitù lo schiavo di colore Django (Jamie Foxx), con la richiesta di aiutarlo a ritrovare i fratelli Brittle, per poterne recuperare la taglia che pende sulla loro testa. Una volta compiuta la missione per cui era stato liberato, Django si vede offrire dal suo nuovo partner un aiuto per ritrovare l’amata moglie, la giovane Broomhilda (Kerry Washington), momentaneamente proprietà dello spietato schiavista Calvin Candie (Leonardo DiCaprio).
Che Tarantino prima che un regista sia un grande cinefilo è indubbio e ne ha dato prova in ogni suo film, pregni di alto citazionismo e camei d’eccezione. Con Django Unchained ci regala un’altra prova della sua competenza in campo cinematografico, in maniera decisamente più fine rispetto ai precedenti: non solo il titolo richiama al mondo dello spaghetti western (e non parlo esclusivamente del capolavoro di Corbucci, ma anche di tutta la serie di Django del cinema italiano nel periodo in cui spopolava in genere), e non solo ritroviamo la straordinaria partecipazione di Franco Nero, primo interprete del protagonista eponimo della pellicola; meno citazionista del solito, Tarantino riesce soprattutto a cogliere in toto l’atmosfera di un genere che ha conosciuto la sua parabola negli anni Sessanta, regalandoci un vero e proprio spaghetti western dei giorni nostri (anche se, bisogna ammetterlo, spesso la grandiosità di alcune sequenze si avvicina più alle grandi produzioni americane à la Peckinpah, che alle più modeste cugine italiane), ammiccando al passato pur donandogli un’impronta del tutto personale. Stilisticamente rimane ineccepibile come sempre, riconfermandosi un vero e proprio autore contemporaneo, perfettamente riconoscibile in ogni sequenza da lui girata, regalandoci anche in questa sua ultima fatica momenti visivamente splendidi (l’immagine delle piante di cotone impregnate del sangue degli schiavisti o la sequenza della spillatura della birra da parte di Schultz, che ci regala scelte di montaggio eccezionali, ne sono esempi lampanti) e una sceneggiatura impeccabile, come sempre opera del regista stesso, ricca dei prolissi dialoghi a lui cari. Troviamo anche in Django Unchained il fil rouge che lega tutta la produzione del regista, quella della vendetta e del riscatto, particolarmente rilevante nel precedente Bastardi senza gloria. Viene mantenuta però sullo sfondo una vicenda amorosa che riesce perfettamente nel compito di addolcire le vicende portanti del film, ossia il vagabondaggio dei due bounty killer, alla ricerca di ricompense e vendetta, e il tema dello schiavismo che, già raramente trasposto sul grande schermo, viene riletto con toni dissacranti ed ironici (pur mantenendo un clima di grande rispetto), tipici sia della filmografia tarantiniana, sia di alcune produzioni di spaghetti western. Da menzionare l’esilarante sequenza in cui, in seguito a una gloriosa cavalcata accompagnata dalle note del Dies Irae del Requiem di Giuseppe Verdi, incontriamo i membri di un proto Ku Klux Klan alle prese con dei cappucci dai buchi troppo stretti. Ed è proprio nell’ambiente schiavista che incontriamo due dei personaggi più riusciti di tutta la pellicola: monsieur Candie, interpretato dal poliedrico Leonardo DiCaprio, per la prima volta alle prese con un vero e proprio “cattivo”, schiavista spietato, ma naive al tempo stesso, immaginato dal regista come un giovane Caligola, e lo Stephen di Samuel L. Jackson, capo della servitù della magione di Candie, forse il personaggio più negativo dell’intera vicenda. Ineccepibili anche le interpretazioni di Jamie Foxx, protagonista eponimo che, nonostante il titolo del film facesse presagire il contrario, viene spesso messo da parte a causa delle strabilianti interpretazioni dei suoi comprimari, e di Christoph Waltz, che si rivela nuovamente uno dei migliori attori contemporanei in circolazione, caustico e salace, ma capacissimo di commuovere anche semplicemente nel raccontare romantiche leggende teutoniche.
Degna di nota è la colonna sonora, un mélange di sonorità agli antipodi, che rivela nuovamente la vastissima cultura cinematografica del regista, che inserisce magistralmente all’interno della pellicola brani presi in prestito dalla tradizione del western all’italiana, firmati da alcuni dei più grandi nomi della composizione per il cinema (come non citare Ennio Morricone, autore del brano inedito Ancora qui, scritto per la voce della cantante Elisa, e Luis Bacalov), tratte da pellicole quali Django e I crudeli di Sergio Corbucci, ma anche Gli avvoltoi hanno fame di Don Siegel, Lo chiamavano King di Giancarlo Romitelli, Lo chiamavano Trinità e moltissimi altri titoli di culto, intervallati da alcuni pezzi originali decisamente più contemporanei, che si inseriscono perfettamente all’interno della narrazione.
Django Unchained, seppur non sia privo di alcune pecche (in primis una sovrabbondanza di momenti ironici e la lunghezza smisurata della pellicola, che arriva, comprensiva di tagli, a 165 minuti, tempo record nella filmografia tarantiniana) rimane un capolavoro della cinematografia contemporanea, un’opera di altissimo livello registico, che perfettamente s’inserisce nel già impeccabile curriculum del regista americano. Tarantino disse una volta che senza lo spaghetti western buona parte del cinema italiano non esisterebbe e che Hollywood non sarebbe la stessa cosa. E dopo la visione di Django Unchained non si può che essere d’accordo con lui.
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